Le challenge sui social network mietono nuove vittime, così come avvenuto a Palermo con la cosiddetta challenge “Black out”.
Questa sfida, diffusa su Tik Tok, Facebook e Instagram, è anche chiamata “Chocking game” e “Pass-out game” e ordina allo sfidante di comprimere la carotide fino alla perdita dei sensi, con la falsa convinzione che il tutto provochi euforia. Non è stato così per una bimba di soli 10 anni di Palermo che, purtroppo ha trovato la morte, mentre tentava di partecipare alla challenge. La bimba avrebbe legato al collo la cintura di un accappatoio, finendo in arresto cardiocircolatorio. I danni, purtroppo sono stati irreversibili. Sul caso la Procura ha aperto un fascicolo ipotizzando l’istigazione al suicidio.
Su cosa si nasconde dietro il mondo delle challenge e sul perché i giovanissimi ne sono quasi ossessionati Tarantini Time ha interpellato il professore Alessandro Meluzzi, criminologo e psichiatra.
Professor Meluzzi, secondo lei, perché i giovani sono attratti dalle sfide estreme?
“Nell’adolescenza, certe dinamiche richiamano quelli che in tempi passati erano definiti ‘riti di passaggio’, dove tra una fase e l’altra vi erano prove fisiche e di resistenza. Questi vecchi riti, che avevano una funzione autodistruttiva, li ritroviamo oggi nella fase adolescenziale”.
Crede che la pandemia e la conseguente libertà limitata possa in qualche modo influire sul loro comportamento?
“L’isolamento dei minori, il cosiddetto distanziamento sociale, produce gravi rischi, tra questi vi è il prevalere della vita virtuale su quella reale. I ragazzi non socializzano, non si confrontano, vivono in un mondo che non esiste”.
Questo passaggio cosa comporta?
“Perdere il contatto con la realtà, distanziarsi da tutto e tutti porta indubbiamente e inevitabilmente verso la depressione e tutto ciò che di negativo questa comporta”.
Partecipare a queste challenge, quindi, che effetto produce sui ragazzi?
“Partecipare a questi giochi che prevedono il rischio, rappresenta innanzitutto un fattore di pericolo, dai giovani però sono percepiti come un qualcosa che serve a introdurre movimento, a scuotere”.
In conclusione possiamo dire, ad esempio, che privare i ragazzi della didattica in presenza, rendendo virtuale anche il mondo della scuola, possa essere un fattore scatenante?
“Le cose potrebbero essere correlate, considerando che il minore isolato tende a vivere per la maggior parte del tempo una vita virtuale con conseguente depressione che porta all’autodistruzione. Dunque, il concetto potrebbe essere spiegato schematicamente in tre punti conseguenziali tra loro: isolamento, depressione e autodistruzione”.