La ricetta è: socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Una storia che continua da anni con il beneplacito di una classe dirigente incapace di riprogrammare lo sviluppo industriale del nostro paese.
Tutto a danno di cittadini e lavoratori.
Si rimane arroccati su posizioni vecchie di 30 anni che non danno risposte alle nuove sfide che il futuro ci chiede. Si continua a dire che lo stabilimento di Taranto è una fonte di ricchezza economica per il territorio, ma onestamente con quasi 6000 persone in cassa integrazione ci chiediamo quale sia il territorio che si arricchisce.
Rimaniamo sconcerati nel sentire sempre le stesse dichiarazioni da parte di quei partiti che secondo la loro storia dovrebbero essere a favore dello sviluppo tecnologico e a difesa della tutela ambientale, ma che in realtà non fanno altro che difendere un tipo di produzione che non è più compatibile con l’uomo. Lo dice l’Istituto Superiore della Sanità e lo ha detto la magistratura alla quale il governo ha messo le manette a suon di decreti, con la benevolenza di chi oggi si indigna.
Anni passati a perdere tempo, quando invece si poteva riprogrammare la riconversione ascoltando le esigenze della comunità che continua a gridare e chiedere aiuto. Lo stabilimento è oramai una bomba ecologica, gli impianti vanno fermati.
Spetta alla politica proporre una nuova alternativa e visione industriale che tenga conto delle enormi potenzialità che Taranto offre: una su tutte il porto che potrebbe diventare, se solo si volesse, uno snodo fondamentale per i traffici del Mediterraneo offrendo, tra l’altro, un risvolto occupazionale non indifferente.
Non accetteremo più dichiarazioni che propinano sempre la stessa solfa, fatte da personaggi che negli anni non hanno mai proposto qualcosa di alternativo e soprattutto compatibile con la vita umana.