Il difficile equilibrio tra dimensione nazionale e territoriale, che è condizione imprescindibile per uno sviluppo sostenibile e cioè capace di coniugare le esigenze produttive, sociali e ambientali senza che uno di questi fattori prevalga sugli altri, è la grande questione che in questi lunghi anni non si è saputo e/o voluto affrontare a proposito dell’ILVA.
Come lo SVIMEZ ha osservato alcuni giorni fa, in modo puntuale (Rapporto su effetti macro-economici relativi alla chiusura ex ILVA – esportazioni -2,2 mld e consumi delle famiglie 1,4 mld – ndr), la produzione di acciaio in Italia è fondamentale per l’economia del sistema produttivo e manifatturiero nazionale (e ovviamente territoriale per le migliaia di posti di lavoro che essa ha prodotto). D’altro canto, la concentrazione in modo prevalente di tale produzione in un territorio come quello di Taranto, che ha dovuto subire e subisce da lunghi decenni i devastanti effetti di quel modello produttivo, che tutti ben conosciamo, sull’ambiente e sulla salute di lavoratori e cittadini, rende evidente la contraddizione che l’abbandono dei Mittal, ad un solo anno dal loro ingresso nella gestione dell’acciaieria, si è resa plasticamente insanabile, nonostante si fosse riposto proprio nella cessione al più grande gruppo di produzione dell’acciaio del mondo la possibilità di raggiungere un equilibrio tra ambiente, salute e lavoro.
Forse è proprio di questo che si è voluto rendere conto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, con la visita nello stabilimento e nella città di Taranto di ieri, incontrando non solo cittadini ma anche gli operai dagli interventi dei quali è emersa, più che la rabbia per il rischio della perdita del posto di lavoro, la denuncia disperata di una condizione di lavoro dei diretti e degli indiretti ormai inaccettabile, anche sul piano della sicurezza, di una condizione socio ambientale fortemente compromessa, di un sistema sanitario non adeguato a dare risposte ai bisogni non solo di prevenzione ma anche di cura di tantissimi cittadini.
Il Presidente Conte non ha offerto soluzioni pronte, ma è stato comunque acclamato dai lavoratori, perché finalmente un politico, peraltro del più alto rango della compagine governativa, è venuto a confrontarsi direttamente con loro, a dargli voce, a promettere di tornare per condividere anche con loro le eventuali soluzioni alla crisi che stiamo attraversando.
Sappiamo, e dobbiamo esserne ben consapevoli, che se davvero la grande fabbrica dovesse chiudere, senza che siano stati previsti gli ingenti finanziamenti per opere di bonifica e di riconversione produttiva del territorio, si avrebbe comunque una ricaduta pesantissima in termini sociali specie a livello territoriale. In tutta la provincia di Taranto si aprirebbe una crisi di enormi dimensioni che investirebbe tutti i settori economico-produttivi, molti dei quali già fortemente provati, come il commercio o il mondo delle professioni e delle piccole e medie imprese. Tutto contribuirebbe inoltre ad accentuare il degrado sociale, la fuga dei giovani della nostra realtà, l’aumento della criminalità e dei fenomeni di usura.
Ma non possiamo più pensare che un agonizzante prolungamento della vita della fabbrica a Taranto, magari con un ulteriore riaffidamento alla gestione commissariale per anni, possa essere una soluzione credibile e accettabile, sapendo che per far questo occorrerebbe ripristinare condizioni quali l’immunità penale, decreti governativi che minimizzino gli effetti dell’intervento della magistratura, magari in assenza di risorse per ottemperare a prescrizioni ambientali, progetti industriali e così via.
Le poche settimane che abbiamo di fronte, prima dell’abbandono definitivo dei Mittal, devono servire a trovare dunque soluzioni che non si basino più sul braccio di ferro tra interesse nazionale e territoriale. Taranto è disponibile ancora ad essere “utile” alla Nazione, ma non al prezzo che ha dovuto pagare sinora.
Paolo Peluso
Segretario Generale CGIL Taranto