La crisi dell’acciaio a Taranto sembra non avere fine o forse adesso è proprio arrivata al capolinea.
“La comunicazione inoltrata da Arcelor Mittal di volersi ritirare dal progetto di rilancio dell’acciaieria di Taranto è una mazzata micidiale, la testimonianza di un fallimento, per alcuni, annunciato”.
Ne parla in proposito Angelo Di Lena, Consigliere dell’”Unione dei comuni terre del mare e del sole”, componente della segreteria provinciale della Lega di Taranto .
“Il passo indietro di Arcelor Mittal nella gestione della fabbrica di Taranto è un duro colpo per le famiglie degli operai e per tutta la città di Taranto.
Il progetto di rilancio dell’acciaieria costruita negli anni 50, dotata di tecnologie ormai obsolete, si è rivelato sin dall’inizio complicato.
Le problematiche dell’ambiente pesantemente compromesso in questi anni da una cattiva gestione della fabbrica da parte della famiglia Riva e, soprattutto, le tante morti sul lavoro, insieme alle dolorosissime morti di tanti bambini e cittadini del Quartiere Tamburi, hanno ridimensionato il ruolo di questa fabbrica e l’opinione della collettività di Taranto sulla sua presenza.
Personalmente ritengo che la crisi dell’acciaieria parte da molto lontano e che le vere cause dell’ abbandono di Arcelor Mittal non sono nel venir meno del cosiddetto”scudo penale”, ma abbiano motivazioni ben più antiche ed importanti.
Al di là del dolore incommensurabile che si prova nel leggere i tanti morti a causa dell’inquinamento e della tragedia dei lavoratori disoccupati che si prospettano, ritengo che si sapeva fin dall’inizio che sarebbe andata a finire così e non certo per i motivi esposti.
La verità è che la grande acciaieria di Taranto non è più una realtà produttiva conveniente ai privati per tanti motivi:
in primis per le enormi spese necessarie per riconvertirla e bonificarla sul piano ambientale.
In secondo luogo per quella che è la situazione degli investimenti oggi in Italia, un paese dove la pressione fiscale è alle stelle. Infine per la presenza dei sindacati, importantissimi sicuramente nel tessuto sociale italiano, ma completamente assenti in altre nazioni.
A conti fatti il costo della manodopera, in termini economici e non solo, rendono sconveniente all’industria dell’acciaio la produzione del nostro paese.
Volendo fare confronti potremmo dire che una fabbrica in India o in Cina non ha gli stessi “incombenti” perché è il costo del lavoro è molto più basso, non ci sono sindacati a differenza di quanto avviene nel nostro paese dove fortunatamente gli operai sono tutelati, non esistono legislazioni sull’ambiente così pressanti e tassative ed, infine, le risorse sono a portata di mano, laddove in Italia il Carbon Coke deve essere importato.
Parlare di conversione o trasformazione della fabbrica dal carbone all’elettricità è, altresì, un non senso.
Molto più logico sarebbe costruire un’altra fabbrica da zero in un posto “tranquillo”, piuttosto, che smantellare sopportando il peso della bonifica.
Al di là di questo c’è da dire che il governo Pd – M5S ancora una volta ha dimostrato tutta la sua inefficienza nella gestione di questa situazione che poteva avere un epilogo migliore se solo si fosse riuscito a trovare più punti di incontro.
Sicuramente l’acciaieria non poteva sopravvivere in eterno perché è un’industria che adotta tecnologie ormai superate. Tuttavia si doveva e si poteva fare di più per gli operai, per i cittadini, per i tanti bambini ammalati e, in questo, credo che la politica e non solo lei avrebbero dovuto avere voce più forte, quella voce soffocata in gola dagli operai, dai genitori dei bambini malati, dai familiari dei tanti morti a causa dell’inquinamento.
Difficile capire come finirà questa intricata vicenda.
Certamente occorre aprire gli occhi per rendersi conto che l’acciaieria non è il nostro futuro e cominciare a pensare a come ridare fiato all’economia del territorio jonico perché tutta questa gente operai, famiglie, nuove generazioni meritano un futuro migliore”.