A un anno dalla scomparsa di Alessandro Leogrande, intellettuale tarantino dal grande rigore morale e dallo sguardo acuto e profondo sulla realtà che viviamo, resta intatto lo sgomento per la perdita di una delle voci più autorevoli che il panorama culturale non solo pugliese ha espresso negli ultimi anni. Manca, oggi più che mai, la sua capacità di analizzare e di sviscerare le tematiche più rilevanti del nostro tempo (le migrazioni, le periferie sociali, la questione ambientale) sapendo trovare legami e relazioni tra fattori o aspetti apparentemente lontanissimi che, però, dopo averlo ascoltato o aver letto le sue pagine, ti apparivano così intimamente connessi da chiederti come mai non te ne fossi accorto prima. Perché Alessandro Leogrande aveva anche questa innata capacità di guardare lontano, di comprendere prima di altri quanto certe dinamiche sociali avrebbero inciso fino nelle viscere della realtà, modificandola.
E manca a Taranto, Alessandro. Perché nonostante non ci vivesse più da molti anni, il capoluogo jonico è sempre rimasto la sua città, nella quale ha orgogliosamente, e fino alla fine, mantenuto la residenza.
E a Taranto ha dedicato due libri e una infinità di articoli, soprattutto a partire da quando è apparsa in tutta la sua drammatica forza il nesso causale profondo tra il disastro ambientale e sanitario che la città stava vivendo e lo stabilimento siderurgico più grande d’Italia (e, poi, d’Europa), portato con grande entusiasmo da una certa politica a Taranto, con l’obiettivo di dare un futuro al territorio e frenare l’emigrazione verso il nord, laddove la riforma agraria non aveva dato fino in fondo i frutti sperati, o almeno non per tutti.
E così “per non morire – scriveva Leogrande – Taranto chiese in massa il centro siderurgico. Chiesero in massa la sua edificazione la città vecchia e quella nuova, gli operai e i pescatori, i proprietari dei terreni e i mediatori politici, una borghesia da sempre apatica e una Curia da sempre supplente di altri poteri. Chiesero tutti la manna dal cielo di migliaia di posti fissi sotto le ciminiere”.
Leogrande ha raccontato con grande lucidità come il centro siderurgico “finì per l’occupare prima 600 e poi 1500 ettari di superficie, per un’estensione pari al doppio dell’intera città. Da quel momento in poi fu la città a crescere e modellarsi intorno alla fabbrica. Furono i tempi e i ritmi della fabbrica a scandire i tempi e i ritmi del tessuto urbano. Il mito dell’industria – mentre il capoluogo mutava – si radicò e rafforzò ulteriormente”.
Tutto questo fino alla scoperta di quanto quel progresso legato alla fabbrica, inseguito con pervicacia da tutto un territorio, avesse in realtà un prezzo altissimo da pagare. “La percezione del disastro ambientale è divenuta cosa comune solo in seguito”.
Sono sicuro che la Regione Puglia tutta, e Tarano, in particolare, non dimenticheranno questo suo figlio così sfortunato che ha saputo raccontare così bene il nostro tempo e le sue contraddizioni, e ritengo molto utile le iniziative che sono sorte spontaneamente per dedicare ad Alessandro Leogrande un luogo pubblico nel capoluogo jonico, perché resti testimonianza e memoria del contributo profondo, in termini culturali, che ha dato alla sua terra e alla sua gente.
Mino Borraccino
Assessore allo Sviluppo Economico della Regione Puglia