«Non c’è alternativa a quella fabbrica a Taranto. La chiusura sarebbe veramente una catastrofe, che significherebbe non pensare al bene di una comunità che è stata formata a questo».
Questa è la conclusione dell’intervento dell’Arcivescovo di Taranto Mons. Ciro Miniero durante il programma «Il Mondo alla Radio» su Radio Vaticana, in relazione alle vicende che riguardano l’Ex Ilva.
Chiudere la fabbrica, per Miniero, significherebbe non pensare al bene di una comunità che è formata a questo. A questo cosa? Monsignor Miniero ha forse ragionato da religioso: “siamo nati per morire”. Perché non c’è altro modo di intendere la frase “comunità formata a questo”.
È vero, tutti moriremo. Lo stesso nostro Signore è venuto sulla terra ed è morto sulla croce per i nostri peccati, ma quella croce, è la stessa che da decenni portano sulle spalle con estrema sofferenza i malati di tumore; i genitori dei bambini ammalati di tumore; gli stessi bambini che si aggrappano con i denti alla vita che scivola via, sotto gli occhi impotenti di mamma e papà. Quei bambini, quegli ammalati, agnelli sacrificali sull’altare del profitto.
Questa è la vera catastrofe, Sua Eccellenza! Il profitto, il profitto sulla pelle dei tarantini che devono rimboccarsi le maniche e devono raccogliere fondi per istituire reparti di oncoematologia pediatrica e finanziare borse di studio per avere dei medici, con il benestare di soddisfatti governatori del proprio io che vengono a tagliare nastri e a spararsi le pose davanti ai miei colleghi.
Eccellenza, Taranto ha bisogno di altro. Taranto ha bisogno di rinascere dalle ceneri, anzi dalle polveri. E c’è bisogno di una presa di coscienza. Mi rendo conto però, dinanzi a tali dichiarazioni che anche chi le coscienze dovrebbe alimentarle e risvegliarle, oramai è rassegnato a un futuro che questa città non ha scelto, ma che le è stato imposto.
Taranto è la città dell’acciaio perché così è stato deciso a scapito della sua comunità. La vocazione industriale non esiste, perché citando il film di Michele Riondino “A Taranto non produciamo neanche una forchetta”.
A Taranto produciamo morte e disperazione e quel reparto dalle pareti azzurre con i pesciolini colorati nell’ospedale Santissima Annunziata parla ogni santo giorno. Quei bambini con la mascherina a cui la fatina non porta via i dentini, ma i capelli e i sogni, sono le innocenti vittime di un disegno criminoso che non conosce eguali.
Lo dica ai quei genitori qual è la vera catastrofe; lo spieghi a quei bambini il significato di catastrofe.
Da madre le dico che catastrofe è il solo pensiero che mia figlia un giorno possa ammalarsi; che io possa ammalarmi o che le persone che amo possano ammalarsi. Catastrofe è leggere una diagnosi nefasta; catastrofe è lasciare l’anima e il corpo giorno dopo giorno mentre vai a fare la chemio. Catastrofe sono quelle mamme che lottano contro la malattia e perdono lasciando bimbi piccolissimi.
La vera catastrofe a Taranto è pensare e dichiarare pubblicamente che la chiusura di quella maledetta fabbrica sarebbe una catastrofe.
Sono credente, ho una fede immensa nel mio cuore. Prego ogni Santo giorno affinché i miei cari e la mia bimba siano protetti. Prego per tutti i bambini e per i loro genitori.
Ma non mi riconosco nella Chiesa che strizza l’occhio alla fabbrica. Da quella Chiesa mi auto scomunico.
Elena Ricci, mamma, tarantina, direttore di Tarantini Time.