E’ venuto a mancare questa mattina a Parma, Padre Michele D’Erchie, Missionario Saveriano di Montemesola.
Nato a Montemesola l’11 novembre 1930, figlio di Vito e Michela Sgobio, è diventato sacerdote nel 1955.
Di seguito riportiamo una sua testimonianza depositata nell’archivio storico diocesano di Taranto e riportata nel volume realizzato dal parroco di Montemesola Don Andrea Casarano “Venite, Benedetti dal Padre Mio”.
“Nell’ottobre del 46 lasciai il mio paese per seguire la mia vocazione missionaria, dopo aver frequentato il ginnasio nel seminario diocesano di Taranto. Furono queste le mie tappe nel Nord Italia tra i Saveriani. Noviziato vicino a Ravenna, liceo a Desio (Milano), teologia a Piacenza, dove fui ordinato sacerdote il 4 giugno 1955. In seguito, due anni come cappellano nell’unica parrocchia che avevamo in Italia, a Parma, e sei anni come rettore nella nostra scuola media vicino a Bergamo. Poi mi concessero di partire per l’Africa. Avevo 34 anni. Arrivai in Burundi, nel cuore dell’Africa, a tre gradi sotto l’equatore, nel settembre del ’64. Dopo alcuni mesi di studio della lingua locale, il kirundi, passai quattro anni a curare ammalati da mattina a sera, in una missione isolata, a 1.700 metri di altitudine, chiamata Murago. Prima di partire per l’Africa, avevo frequentato due anni, i corsi di medicina pratica, organizzati dai professori medici dell’ospedale di Piacenza appositamente per i missionari, per prepararli in casi di grave necessità a supplire un medico nel curare le malattie più comuni in un clima equatoriale. E la necessità busso proprio alla mia porta! La tanta gente che vedevo ogni giorno, a i più non erano cristiani, mi mostrava viva gratitudine e affetto per il mio lavoro. E per me era facile parlare loro di Gesù e del suo vangelo mentre curavo i loro corpi: erano totalmente disponibili.
A Murago costruimmo un ospedaletto con l’aiuto della nostra diocesi di Taranto. Vennero a inaugurarlo nel ’70 Mons. Motolese, Don Giovanni Zappimbulso, suo vicario generale, a Don Cosimo Russo mio compaesano. Nel maggio del ’69 fui eletto superiore regionale dei nostri missionari che lavoravano nel Burundi e nel Congo, nella regione del Kivu grande come l’Italia. Da responsabile di quelle missioni dovetti affrontare i tristi avvenimenti del ’72, quando, solo in due mesi, i Tutsi del Burundi massacrarono più di 150.000 Hutu (che formavano l’85% della popolazione) in una repressione feroce di cui, in alcuni casi, fui testimone oculare, rischiando la pelle mentre trasportavo sulla mia jeep feriti gravi in mezzo alle ostilità. La repressione era scattata dopo un tentativo di ribellione degli Hutu al giogo della minoranza tutsi.
Nel luglio del ’74 rientrai in Italia per curarmi la spalla rotta in due incidenti diversi. Seguirono tre anni di studi, uno a Parigi e due a Roma. Ritornai nel Burundi nel settembre del ’77 per assumere la responsabilità di una vasta missione, Kigwena, che si estendeva lungo 750 km.
La missione comprendeva anche un altipiano, sui 2.000 metri, densamente popolato.
Eravamo solo in due missionari: io mi occupavo dell’evangelizzazione e l’altro padre delle opere sociali che attuava con grande competenza a vantaggio della povera gente. Sfortunatamente, alla fine dell’81, il dittatore del Burundi, un certo Bagaza, una figura sinistra di tutsi, dopo aver espulso molti missionari, a ondate successive, espulse anche me, insieme ad altri nove saveriani, perchè eravamo testimoni scomodi nei suoi processi-farsa contro le missioni. Dovetti vivere un’altra sosta amara di otto
mesi in Italia. Dopo, la mia Direzione generale, all’inizio del settembre dell’82, mi affidò la responsabilità di guidare il primo gruppo di saveriani destinati alle nostre nuove missioni del Camerun e del Ciad. E in Camerun sono rimasto dieci anni. I primi quattro all’Estremo Nord del Camerun furono molto duri per il clima impietoso in un ambiente predesertico. In certi mesi il caldo raggiungeva 47 gradi all’ombra e in altri mesi bisognava difendersi da una nebbia di polvere finissima che veniva giù dal deserto e procurava guai seri alla salute. Ma non mancavano le consolazioni Anche in quell’ambiente la gente ci accoglieva con grande simpatia e ci chiedeva esplicitamente di essere liberata dall’ignoranza e dalla paura. Il nostro primo impegno fu quello di formare un bel gruppo di catechisti a tempo pieno, che sarebbero stati in seguito i responsabili dell’evangelizzazione dei loro fratelli, perchè conoscevano meglio di noi la loro cultura. Ci impegnammo anche nel far sorgere scuole di alfabetizzazione per gli adulti e i bambini non scolarizzati (i più numerosi).
E aiutammo anche a scavare pozzi in alcuni villaggi per assicurare l’acqua alle famiglie in una regione dove piove pochissimo e dove l’acqua è l’elemento più vitale.
Colpito da un’infezione virale grave, verso la fine dell’86 mi trasferii nell’Ovest del Camerun, su un altipiano un pò più salubre. Qui, insieme a due altri confratelli iniziai una nuova missione nella periferia di Bafussam, capoluogo dei Bamileké, una delle etnie più dotate e intraprendenti dell’Africa. Su una popolazione di oltre 30 mila abitanti avevamo solo pochi cristiani. Ci chiedemmo come potevamo trasformare questo piccolo nucleo di credenti in un buon lievito per far “fermentare” cristianamente la grande massa non cristiana.
E dopo una lunga e appropriata catechesi su come vivere una nuova fraternità alla luce del Vangelo, demmo inizio alle piccole comunità ecclesiali di quartiere, dove, in una delle loro case, si riunivano liberamente, ogni settimana, per ascoltare una pagina del Vangelo, memorizzarla, meditarla in un clima di preghiera e decidere poi di attuarla con opere buone per migliorare la vita del loro quartiere. L’iniziativa suscitò l’entusiasmo dei cristiani, l’ammirazione dei non-cristiani e l’elogio del nostro vescovo africano. Nel giugno del ’92 fui richiamato in Italia per dirigere il nostro centro di formazione permanente, vicino a Como, dove arrivano i nostri missionari dai quattro continenti in cui lavorano, a gruppi di 20-30 persone, per ritemprarsi fisicamente e spiritualmente, in tre mesi ricchi di attività culturali e di condivisioni di esperienze di vita differenti molto arricchenti per progettare meglio il futuro. In quel centro sono rimasto otto anni. Dopo, non potendo tornare in Africa per problemi al cuore, sono stato destinato alla nostra casa di Salerno per l’animazione missionaria in Campania e in Lucania”.