Lui è Alessandro Rebuzzi. Oggi avrebbe compiuto 26 anni.
Vi ripropongo questo articolo scritto nel 2015 su altra testata, dal quale è stata rimossa, contro ogni forma di correttezza, la mia firma.
Alessandro è un ragazzino che senza volerlo ha lasciato un segno in chiunque lo abbia conosciuto, incrociato. In chiunque ne abbia sentito parlare.
Ha lasciato il segno nella sua Taranto, perché durante la sua breve vita, nonostante le mille difficoltà causategli dalla malattia, è sempre stato in prima linea nella lotta per i diritti alla vita e alla salute. Alessandro è nato con la corazza, con la corazza di un guerriero, il 6 maggio del 1996.
Lui è nato pronto, pronto a combattere. Infatti, causa ileo da meconio, il giorno dopo la nascita, viene trasferito presso l’ospedaletto pediatrico di Bari, in cui è sottoposto a un intervento chirurgico della durata di 11 ore.
Quelli sono i preludi di un inferno che prende il nome di fibrosi cistica. In questo inferno Alessandro ha lottato per lui e per i tanti che soffrono di questa patologia.
La sua era la forma più complessa, la F508, una mutazione completa di fibrosi cistica che intacca tutto l’intestino, oltre a compromettere altri organi tra cui i polmoni. Alessandro Rebuzzi, quindi, non avrebbe potuto vivere a Taranto. I medici nel corso della sua malattia, consigliarono ai genitori di portarlo via da Taranto, in quanto le polveri sottili dovute all’inquinamento avrebbero peggiorato le sue condizioni e compromesso ulteriormente i problemi a carico dell’apparato respiratorio. Alessandro mai e poi mai avrebbe lasciato la sua città. Di fronte a quell’affermazione dei medici, Alessandro rispose che lui era tarantino, l’Ilva no. Dunque, non doveva essere un tarantino ad andare via da Taranto, ma la fabbrica. Alessandro aveva una sola richiesta: «Voglio respirare aria pulita».
Questa richiesta Alessandro l’ha urlata da una ringhiera all’esterno del tribunale, negli anni in cui Taranto iniziava a svegliarsi dall’assopimento in cui l’industria era il solo futuro, senza rendersi conto che il vero futuro stava scomparendo e Alessandro ne ha rappresentato una parte. Una parte di quel futuro che si ribella e rivendica il senso per il quale esistiamo su questa terra: vivere. Perché tra vivere ed esistere c’è una grossa differenza.
Alessandro pur non vivendo più continua ad esistere. Esiste nei racconti del suo papà Aurelio; esiste nelle lotte per l’ambiente, perché Alessandro non voleva la disoccupazione, ma la bonifica degli impianti. Voleva che lavoro, salute e ambiente potessero tenersi per mano.
Voleva vivere Alessandro. La sua breve vita non è stata facile. Attendeva il trapianto polmonare a Padova. Quel trapianto gli avrebbe permesso di vivere e di tornare a respirare, ma non ci è mai arrivato.
Alessandro fu dimesso da Verona il 27 luglio del 2012, tornò a Taranto e la sua mascherina andò a manifestare pacificamente per una Taranto che potesse permettergli di respirare. Il 9 agosto le sue condizioni si aggravano e viene trasportato a Cerignola, dove viene ricoverato e dove si spegnerà per sempre il 2 settembre del 2012.
Alessandro non ha mai pianto durante la sua malattia, era lui a dare coraggio a parenti e amici, ma una lacrima, solo una, è scesa nel momento in cui ha chiuso gli occhi per sempre.
Alessandro aveva dei sogni. Giocava a calcio, in porta, non potendo in attacco e difesa per via della malattia.
Alessandro ha difeso la porta della sua vita e come ogni bravo portiere, anche lui ha subito dei goal. L’ultimo nella partita decisiva.
Da bambino sognava di diventare poliziotto perché era contro ogni forma di crimine e ingiustizia, poi con la malattia cambiò idea e decise di voler fare il medico per aiutare chi soffriva.
Alessandro non è stato seppellito nel cimitero di Taranto. Suo padre mai avrebbe permesso di farlo riposare sotto i camini dell’Ilva. È seppellito poco più lontano, in una cappella di famiglia.
Aurelio si definisce un papà orfano, ma con una missione importante. Perché non è vero che la vita non ha senso.
Alessandro prima di morire scrisse una cosa importante sul suo diario: «Chi butta la sua vita non merita di essere ricordato». Lui la sua breve vita l’ha vissuta fino in fondo. Ha lottato e continua a farlo nelle azioni di suo padre. Per Aurelio ora il senso della vita è questo: lottare per chi merita di essere ricordato.