L’ultimo dell’anno ha visto aprirsi le porte del carcere per 10 affiliati al clan di Cosola, colpiti da condanne definitive, per oltre 60 anni di reclusione, a seguito dell’operazione convenzionalmente denominata “Attila 2”.
Con la decisione della Corte Suprema di Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dagli imputati, è divenuta definitiva la sentenza della Corte d’Appello di Bari del 23 settembre 2019 (in riforma della sentenza, datata 28 maggio 2018, del GUP di Bari), che aveva riconosciuto gli stessi colpevoli, a vario titolo, dei delitti di “associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, coercizione elettorale in concorso”. Quattro imputati, che allo stato si trovavano liberi, sono stati arrestati dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Bari a seguito di un’operazione che ha visto impegnate decine di militari, tra i comuni di Bari, Noicattaro e Giovinazzo, mentre, per gli altri sei, i provvedimenti restrittivi sono stati notificati presso le case circondariali ove si trovavano già detenuti.
Il provvedimento odierno costituisce l’epilogo dei processi avviati a seguito delle indagini condotte, negli anni 2015-2016 dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Bari, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo pugliese, nei confronti del clan Di Cosola, consorteria mafiosa tuttora attiva in Bari e provincia, che aveva mostrato in quegli anni, nonostante gli importanti interventi repressivi subiti ad opera della Magistratura e dell’Arma dei Carabinieri e la conseguente scelta collaborativa intrapresa da alcuni dei suoi esponenti di maggior spessore, di avere mantenuto e sviluppato la sua concreta e pericolosa capacità criminale nell’area d’influenza. L’inchiesta aveva messo in luce come il clan Di Cosola avesse, nel suo vasto territorio d’interesse, condizionato le consultazioni regionali del maggio 2015, mediante un pactum sceleris che prevedeva la corresponsione di una somma pari a 50 euro per ogni preferenza procurata dalla consorteria in favore del candidato. Gli elementi raccolti avevano anche dimostrato il ricorso alla forza di intimidazione esercitata dagli associati nei confronti degli elettori, i quali venivano minacciati, a fronte della promessa di 20 euro per ogni voto accordato al politico, di ritorsione in caso di non adempienza.
In sintesi, dopo l’operazione “Pilastro” del 2015 e l’avvio della collaborazione con la giustizia da parte di Di Cosola Antonio e dei suoi più stretto familiari, i militari del Nucleo Investigativo di Bari, il 30 dicembre 2015, procedevano all’esecuzione di 5 ordinanze di custodia cautelare in carcere nell’ambito dell’operazione “Attila”, per associazione mafiosa aggravata dalla disponibilità di armi da guerra (tra le quali un bazooka pronto all’uso) nei confronti dei contendenti al ruolo di capo clan, precedentemente ricoperto proprio da Di Cosola Antonio. In seguito, il 13 dicembre 2016, sempre i Carabinieri di Bari eseguivano 25 ordinanze di custodia cautelare in carcere, nell’ambito dell’operazione “Attila 2”, per associazione mafiosa (aggravata dalla costante disponibilità di armi) e per voto di scambio politico-mafioso. In breve tempo, le due inchieste, alla luce dei decisivi elementi di responsabilità raccolti nei confronti di tutti gli indagati, sono sopraggiunte a sentenza di primo grado, confermata in appello e divenuta irrevocabile a seguito di ricorsi proposti dagli imputati ritenuti inammissibili.