Per far proseguire la produzione in perdita degli impianti Ilva ed evitare la fuga di Mittal, il governo ha dovuto accettare alcune condizioni dettate dal partner privato. Sono condizioni che in prospettiva possono far saltare l’accordo appena firmato. Ve le riportiamo integralmente.
Mettendo a confronto di due comunicati che sono giunti stanotte, il primo dal governo italiano e il secondo da ArcelorMittal, si nota subito la differenza. E la differenza sta in una noticina alla fine del secondo comunicato.
Ecco la noticina:
*Le condizioni sospensive al closing comprendono: la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; e l’assenza di misure restrittive – nell’ambito dei procedimento penali in cui Ilva è imputata – nei confronti di AM InvestCo.
Cosa è il closing? Il closing è l’effettivo trasferimento dal venditore al compratore della titolarità delle azioni, delle quote o dell’azienda.
Questa noticina sul closing contiene le condizioni dettate da ArcelorMittal a cui è sottoposta la realizzabilità effettiva e conclusiva dell’accordo, ossia dell’acquisto da parte di ArcelorMittal della sua quota dello stabilimento (attualmente è in affitto).
La ricapitalizzazione di cui si parla è pertanto effettiva solo per il governo (che mette 400 milioni) ed è puramente virtuale da parte di ArcelorMittal che, a leggere attentamente entrambi i comunicati, per ora non mette nulla nella ricapitalizzazione. Bisogna solo capire se pagherà gli affitti degli impianti e se quali somme, quelle versate e quelle da versare, possano essere considerate come “ricapitalizzazione”. Insomma siamo di fronte a un’operazione in cui, da quello che è dato sapere dai comunicati, è solo lo Stato che si accolla per ora l’onere della ricapitalizzazione con 400 milioni di euro. In nessuna parte dei due comunicati si riesce a trovare un investimento di pari entità da parte di ArcelorMittal. E quindi questa storia della ricapitalizzazione al 50% è un vero mistero della politica, oltre che della matematica.
Leggiamo con attenzione quanto è riportato nel comunicato di ArcelorMittal.
L’Accordo di Investimento comporterà la ricapitalizzazione di AM InvestCo, la società controllata da ArcelorMittal che ha sottoscritto il contratto di affitto con obbligo di acquisto dei rami d’azienda Ilva. Invitalia investirà in AM InvestCo in due tranche:
- Il primo investimento di Euro 400 milioni sarà effettuato entro il 31 gennaio 2021 (subordinatamente all’autorizzazione antitrust dell’Unione Europea), attribuendo a Invitalia il controllo congiunto su AM InvestCo;
- Il secondo investimento fino a Euro 680 milioni sarà dovuto al closing dell’acquisto da parte di AM InvestCo dei rami d’azienda Ilva, che è soggetto al soddisfacimento di varie condizioni sospensive*, entro maggio 2022. A quel punto, la partecipazione di Invitalia in AM InvestCo raggiungerà il 60%. Inoltre, ArcelorMittal investirà fino a Euro 70 milioni, nella misura necessaria a mantenere una partecipazione del 40% e il controllo congiunto della società.
Come si può notare anche la seconda tranche di investimento (quella fino a Euro 680 milioni) spetta allo Stato, non ad ArcelorMittal, a cui spetta solo un investimento nel 2022 solo di 70 milioni di euro, che – se la matematica non è un’opinione – non sono il 50% della somma totale derivante dalle die tranche (400+680). Verranno conteggiati come ricapitalizzazione i fitti degli impianti già pagati?
I fitti degli impianti ILVA ammontavano all’inizio a 45 milioni di euro a trimestre, che ArcelorMittal ha poi ottenuto – da un certo punto in poi – a 22,5 milioni. Uno sconto.
Nel secondo comunicato, quello di ArcelorMittal, l’asterisco che rimanda alla noticina posta alla fine del comunicato cambia totalmente la comprensione dell’accordo e sgonfia l’entusiasmo che leggiamo nel primo, quello del Governo. Quella nodicina mette bene in chiaro quali saranno le clausole che potrebbero far naugragare questo accordo concordato con tanta fatica, fatto slittare di dieci giorni e reso noto pubblicamente – in modo inusuale – alla mezzanotte tra il 10 e l’11 dicembre. Ossia poche ore fa.
Tutto dipende dal processo, attualmente in corso, alla fine del quale gli impianti potrebbero essere confiscati; attualmente sono sotto sequestro. Sono dettagli fondamentali su cui si sofferma anche il Sole 24 Ore di oggi.
E poi molto dipende dalla emanazione di un nuovo decreto salva-ILVA che modifichi il piano ambientale rendendolo meno stringente, meno oneroso e quindi con nuove deroge e proroghe. Con tanti saluti a quella prospettiva green di cui si parla pomposamente nel comunicato del Governo. Tutte le percentuali di riduzione degli inquinanti – elencate nel comunicato del governo – sono fumo negli occhi. Letteralmente fumo negli occhi. Perché le riduzioni ipotizzate sono realtive ai nuovi impianti, che non si sostituiranno ai vecchi ma si sommeranno ad essi. E quindi l’inquinamento, in una prospettiva di incremento della produzione (tutta da verificare dato che è il mercato e non il governo che decide quanto acciaio si potrà vendere), non calerà ma sommerà quello nuovo a quello vecchio.
Si legge sul comunicato del Governo:
La riduzione dell’inquinamento realizzabile con questa tecnologia è infatti del 93% a regime per l’ossido di zolfo, del 90% per la diossina, del 78% per le polveri sottili e per la CO2.
Come si può notare la riduzione fa riferimento a una tecnologia nuova, non alla vecchia: pertanto l’inquinamento non diminuirà. Sarà una sommatoria del vecchio inquinamento con il nuovo, ancorché quest’ultimo sia ridotto. Sarà quindi, lo ripetiamo, un inquinamento maggiore quello che si prospetta per Taranto con un’operazione che ha alcune caratteristiche tipiche dell’aiuto di Stato, vietato dal Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
E’ un’inoltre un’operazione che getta i soldi dello Stato in una prospettiva che non è di risanamento e di rilancio ma di puro tamponamento di perdite. Non è un investimento che creerà ricchezza e occupazione ma è un modo per bruciare la ricchezza senza creare occupazione. Cinquemila lavoratori verranno espulsi e gli altri perderanno il lavoro non appena il mercato globale – in crisi di sovraproduzione e con la Cina che avanza sempre più – farà il suo corso decretando la fine di una fabbrica decotta e fallito da tempo. Vi sono quindi tutte le caratteristiche di un’operazione perdente, basata su un piano industriale privo di concretezza, destinata ad esser vagliata, probabilmente, anche dalla Corte dei Conti, dato che stiamo parlando di soldi pubblici e del loro “buon uso”. Non va infatti dimenticato che nel 2013 l’ILVA passò allo Stato e due anni dopo – nel gennaio 2015 – i conti erano già in rosso per 2,9 miliardi di euro. Si arrivò al tribunale fallimentare di Milano. Oggi la storia rischia di ripetersi, tanto più che il mercato siderurgico presenta difficoltà ancora maggiori rispetto al 2013-2015. E l’Ilva produce la metà, essendo ormai arrivata al livello minimo di produzione mai registrato. L’accordo siglato sembra più un tentativo di rimandare di qualche mese la morte di un moribondo che la volontà di dare una prospettiva ai lavoratori e a una città ferita. Una città che ha dei semafori gialli con un adesivo nero, e sull’adesivo c’è una scritta inequivocabile: “Ilva is a killer”.