L’accordo fra Invitalia ed ArcelorMittal, che sancisce la partecipazione dello Stato alla gestione dell’attività siderurgica un tempo marchiata “Ilva”, ha confermato una volta di più che il diritto alla salute per Taranto ed i suoi cittadini è considerato un fastidioso “optional”.
I termini di questo “patto d’acciaio”, come ho già avuto modo di definirlo in occasione della sua stesura, soddisfano tantissimo i firmatari per una serie di motivi: importanti investimenti per la progressiva decarbonizzazione dello stabilimento di Taranto, la ristrutturazione integrale dell’impianto, la scrupolosa attuazione del piano ambientale, un’attenzione straordinaria alla manutenzione e alla sicurezza dei macchinari, una produzione con emissioni ridotte, l’utilizzo di un forno elettrico e così via…
Peccato, però, che da coloro che esprimono grande soddisfazione per questo risultato non sia stato posto nella dovuta evidenza il “prezzo” che lo Stato dovrà pagare in vista della formalizzazione dell’acquisto da parte di AM InvestCo dei rami d’azienda Ilva entro maggio 2022.
A chiarire questo aspetto ci ha pensato proprio il gruppo franco-indiano con un suo comunicato stampa in cui viene messo nero su bianco che il “closing è soggetto a varie condizioni sospensive” e che, di conseguenza, potrebbe saltare qualora le stesse non dovessero essere accettate.
Ma di cosa si tratta? Niente paura. Anche queste “condizioni sospensive” vengono spiegate a margine della nota in maniera dettagliata come di seguito: “la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; e l’assenza di misure restrittive – nell’ambito dei procedimenti penali in cui Ilva è imputata – nei confronti di AM InvestCo”.
Come si può notare, si torna incredibilmente a discutere sul mantenimento in vigore di provvedimenti giudiziari. In poche parole, ArcelorMittal non solo chiede che il sequestro penale riguardante alcuni impianti dello stabilimento venga cancellato, ma che sia prevista pure l’assenza di misure restrittive nei suoi riguardi “nell’ambito dei procedimenti penali in cui Ilva (e non ArcelorMittal, si badi bene) è imputata”. Premesso che qualcuno dovrebbe ricordare ad AM InvestCo che in Italia la responsabilità penale è personale e che quindi non si può essere chiamati a rispondere per condotte imputabili ad altri soggetti, non appare molto chiaro a chi si rivolge per ottenere la revoca dei sequestri degli impianti.
In base alla divisione dei poteri prevista nel nostro Paese, un compito simile spetta alla magistratura e non a chi ha siglato il “patto d’acciaio”. Tutto questo a meno che nel corso della traduzione dell’accordo in due lingue (motivo per cui la firma è slittata di dieci giorni) non sia sfuggito qualcosa capace di rendere meno opinabile questo passaggio. E sì, perché non vorremmo che si dia per scontato che debba essere lo Stato a proporre agli organi giudiziari preposti un’istanza di dissequestro solo perché ArcelorMittal la ritiene una “condizione sospensiva” della futura formalizzazione del “closing”. Anche perché, secondo quanto è a mia conoscenza, un sequestro si revoca quando sono cessate le esigenze cautelari che lo hanno determinato.
Sarebbe bene che la questione venisse chiarita dal Governo nelle sedi opportune, magari rispondendo all’interrogazione parlamentare che ho intenzione di presentare in attesa di auspicate precisazioni.