Le presenze in carcere, a fine luglio, si attestano a 53.619 unità, dopo le misure adottate in marzo con il decreto Cura Italia nella fase di emergenza Covid, e il tasso di affollamento ufficiale si ferma per ora al 106,1% (era del 119,4% un anno fa) ma in ben 24 istituti supera ancora il 140% e in 3 si supera il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il 178,9%, Latina con il 197,4%). E’ quanto emerge dal rapporto di metà anno sulle carceri dell’associazione Antigone (riportato dall’Agi) la quale rileva che il reale tasso di affollamento nazionale è superiore a quello ufficiale in quanto alcune migliaia di posti letto non sono attualmente disponibili a causa della chiusura dei relativi reparti.
Per l’associazione, troppe presenze sono rischio di nuovi focolai.
Il rapporto di Antigone
SI ATTENUA L’EFFETTO DELLE MISURE PER CONTRASTARE LA PANDEMIA: SOVRAFFOLLAMENTO AL 106%. A TARANTO E LARINO SI VA OLTRE IL 170%, MENTRE A LATINA È DI QUASI IL 200%
L’8 marzo entravano in vigore, con il decreto “Cura Italia”, le prime misure atte a contenere i numeri della popolazione detenuta per contrastare la diffusione del coronavirus in carcere. Nei mesi successivi le presenze, che peraltro già prima di queste misure erano iniziate a calare, raggiungevano a fine aprile le 53.904 unità. Tre mesi dopo, a fine luglio, le presenze in carcere, con 53.619 unità, restano sostanzialmente stabili.
Il tasso di affollamento ufficiale si ferma per ora al 106,1% (era del 119,4% un anno fa) ma in ben
24 istituti supera ancora il 140% ed in 3 si supera il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il 178,9%, Latina con il 197,4%). Il reale tasso di affollamento nazionale è inoltre superiore a quello ufficiale in quanto alcune migliaia di posti letto non sono attualmente disponibili a causa della chiusura dei relativi reparti.
In un anno le presenze sono calate in media dell’11,7% ma il dato a livello regionale è molto disomogeneo: -19,8% in Emilia-Romagna, -15,2% in Campania, -13,9% in Lombardia, -11,0% in Piemonte, -7,4% in Sicilia, -7,3% in Veneto. Le Marche sono l’unica regione in Italia in cui la popolazione detenuta è nell’ultimo anno aumentata, con una crescita dell’1,1%.
È necessario che si scenda a breve sotto i 50 mila detenuti per garantire spazio e distanziamento fisico.
IL CALO DEL NUMERO DEI DETENUTI HA INCISO IN MANIERA SUPERIORE ALLA MEDIA PER DONNE E STRANIERI
Le donne detenute sono oggi 2.248, il 4,2% dei presenti. Un anno fa erano il 4,4%: il calo di questi mesi ha inciso su di loro in misura superiore alla media dei detenuti.
La stessa cosa è successa con gli stranieri. Oggi sono 17.448, il 32,5% dei presenti. Un anno fa erano il 33,3%. Nonostante gli stranieri notoriamente incontrino maggiore difficoltà ad accedere alle misure alternative e per loro sia più frequente il ricorso alla custodia cautelare, del calo di presenze di questi mesi, che ha riguardato essenzialmente i reati meno gravi, essi hanno beneficiato in proporzione più degli italiani.
287 I CASI TOTALI DI CONTAGIO DA CORONAVIRUS TRA I DETENUTI. 4 I
DETENUTI MORTI, 2 GLI AGENTI DI POLIZIA E 2 MEDICI PENITENZIARI
Secondo gli ultimi dati disponibili i casi totali in carcere fino al 7 luglio sono stati 287 con un picco massimo nella stessa giornata di 161 persone positive. Un numero contenuto, ma da non sottovalutare: in rapporto al totale della popolazione detenuta è infatti superiore, sebbene di poco, al tasso di contagio nel resto del paese. Le misure prese a marzo a livello periferico sono state determinanti. Non deve tornare l’affollamento in carcere, altrimenti si rischia di trasformare queste ultime in luoghi fortemente a rischio, come lo sono state le Rsa.
Focolai si sono riscontrati a Saluzzo, Torino, Lodi (poi trasferiti a Milano), Voghera, Piacenza, Bologna e Verona. Lunghi alcuni decorsi della malattia, che hanno raggiunto anche i tre mesi. Per il coronavirus hanno perso la vita in tutto 4 detenuti, 2 agenti di polizia e due medici penitenziari.
Più che in passato sono disponibili per personale e detenuti dispositivi di protezione individuale. Antigone, con il sostegno di Cild, ha donato migliaia di mascherine alle direzioni degli istituti seguenti: San Vittore Milano, Trieste, Bari, Rebibbia Nc, Regina Coeli nonché a case famiglia per detenute madri e comunità dove sono ristretti minori.
IL 52,6% DEI DETENUTI DEVE SCONTARE MENO DI TRE ANNI E UNA PARTE POTREBBE AVERE ACCESSO A MISURE ALTERNATIVE. UN DETENUTO CONDANNATO SU CINQUE DEVE SCONTARE SOLO UN ANNO.
Il 19,1% dei detenuti ha un residuo pena inferiore ad un anno, il 52,6% deve ancora scontare meno di tre anni per un totale di 18.856 detenuti. Queste percentuali salgono molto per i detenuti stranieri, arrivando rispettivamente al 26,3% ed al 66,6%.
Sono percentualmente aumentati i detenuti per i reati più gravi, a seguito delle scarcerazioni avvenute tra marzo e maggio di persone con pene brevi. I presenti con una condanna definitiva superiore ai 10 anni, ergastolani inclusi, erano a fine giugno 2019 il 26,8%, dei presenti totali. A fine giugno 2020 erano il 29,8%. Al 30 giugno erano 7.262 i detenuti reclusi per associazione di stampo mafioso (416-bis): soltanto 128 erano donne e 176 stranieri.
Al 6 novembre 2019, ultimo dato ufficiale disponibile, le persone sottoposte al regime speciale di cui all’41bis erano 747 (735 uomini e 12 donne), a cui devono aggiungersi 7 internati, per un totale di 754 persone distribuite in 11 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza.
Aumenta anche l’età media. I detenuti con più di 50 anni erano il 25,2% a fine giugno 2019 mentre un anno dopo erano il 25,9% dei presenti.
INVESTIRE SULLE MISURE ALTERNATIVE POTREBBE FAR RISPARMIARE 500 MILIONI DI EURO
Posto che un detenuto costa in media 150 euro al giorno circa (costi che comprendono la retribuzione dello staff), mentre una persona in misura alternativa costa dieci volte di meno, si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro (oltre che avere ritorni positivi per la sicurezza collettiva visto che una persona in misura alternativa ha un tasso di recidiva tre volte inferiore a una persona che sconta per intero la pena in carcere) se la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la sua pena.
CRESCE IL NUMERO DI PERSONE IN CUSTODIA CAUTELARE. È IL 33,2% DEL TOTALE
Uno sguardo alla posizione giuridica delle persone detenute nelle nostre carceri: un anno fa, a fine luglio 2019, i definitivi erano il 68,6% dei presenti (il 64,5% tra i soli stranieri).
A fine aprile 2020, calate notevolmente le presenze in carcere, i definitivi erano il 68,8% dei presenti (il 66% dei soli stranieri). Nonostante le misure deflattive previste riguardassero solo i detenuti con una condanna definitiva, la percentuale di persone in custodia cautelare in questo intervallo era addirittura leggermente calata, ed il calo era più significativo tra gli stranieri.
A fine luglio 2020 aveva una condanna definitiva il 66,8% dei presenti (il 64,8% tra i soli stranieri). In pochi mesi dunque, nonostante la popolazione detenuta nel suo complesso sia sostanzialmente invariata, continuano a calare i definitivi ma aumentano le persone in custodia cautelare, segno che sono tornati ad aumentare gli ingressi in carcere. In particolare tra gli stranieri, come accaduto in passato ogni volta che tornava a crescere la popolazione detenuta, e probabilmente a breve i segni di questa crescita si faranno più evidenti.
IN FORTE CALO LA PRESENZA DEGLI STRANIERI IN CARCERE NEGLI ULTIMI 12
ANNI. IN DODICI ANNI MENO 4,5%
Sono 17.448 gli stranieri in carcere al 31 luglio 2020, per una percentuale pari al 32,5% del totale della popolazione detenuta. Tale percentuale raggiungeva il 37% nel 2008, quando (al 31 dicembre) gli stranieri detenuti erano 21.562.
Al 31 luglio 2020 i 5 istituti penitenziari con il maggior numero di detenuti stranieri in termini assoluti erano: la CC di Torino (663 detenuti stranieri, 48,4% sul totale), la CC di Milano San Vittore (542 detenuti stranieri, 58,3 % sul totale), la CC di Roma Regina Coeli (496 detenuti stranieri, 49,5% sul totale), la CC Firenze Sollicciano (494 detenuti stranieri, 66,8% sul totale) e la CC di Roma Rebibbia NC (466 detenuti stranieri, 32,9% sul totale).
Di questi 5 istituti solo Firenze Sollicciano rientra tra i primi dieci con la più alta concentrazione in percentuale di stranieri, attestandosi al sesto posto. I primi cinque istituti per percentuale di stranieri sono due case di reclusione sarde, Onanì dove l’81,7% dei detenuti è di nazionalità non italiana e Arbus Is Arenas dove gli stranieri rappresentano l’80,9%del totale dei reclusi. A seguire le case circondariali di Bolzano (70,1%) Aosta (68,4%) e Padova (67,4%).
Le cinque regioni con la più alta presenza in percentuale di stranieri detenuti negli istituti penitenziari sono la Valle d’Aosta (68,4%), il Trentino Alto Adige (63,1%), la Liguria (53,1%), il Veneto (53%) e la Toscana (49,9%). Sono comunque ben sopra la media nazionale (al 32,5% il 31 luglio 2020) l’Emilia-Romagna (48,3%), la Lombardia (43,7%), il Friuli Venezia Giulia (35,3%) ed il Piemonte (40,5%). Ben al di sotto della media nazionale la Calabria (18,4%), l’Abruzzo (17,6%), la Sicilia (18,7%), la Campania (13,6%), la Puglia (13,7%) e la Basilicata (12,3%). Per quanto riguarda le nazionalità più rappresentate all’interno dei nostri istituti di pena andiamo a distinguere tra popolazione reclusa maschile e femminile. Per quanto riguarda gli uomini, le cinque nazioni straniere più rappresentate sono (le percentuali sono da riferirsi sul totale dei detenuti non italiani): il Marocco (18,5%), la Romania (12,2%), l’Albania (11,7%), la Tunisia (10,2%), la Nigeria (8,6%).
Discorso diverso per le donne straniere che rappresentano il 35,3% delle donne recluse al 31 luglio 2020. Tra le straniere troviamo al primo posto la Romania con il 23,3% di recluse sul totale delle straniere, poi la Nigeria (20,1%), la Bosnia-Erzegovina (5,4%), il Marocco (4,5%) e il Brasile (4,3%).
I DETENUTI STRANIERI SONO MEDIAMENTE PIÙ GIOVANI DEGLI ITALIANI,
COMMETTONO REATI MENO GRAVI E PER LORO LA CUSTODIA CAUTELARE È PIÙ FREQUENTE
Mediamente i detenuti stranieri sono più giovani degli italiani. Al 30 giugno 2020 avevano tra i 21 e i 44 anni il 79,2% dei detenuti stranieri, contro il 50,7% dei detenuti italiani. Gli stranieri tra i 18 e i 20 anni sono il 2% dei detenuti stranieri totali (gli italiani lo 0,8%).
Per quanto riguarda la posizione giuridica dei detenuti stranieri, al 31 luglio 2020, gli stranieri in custodia cautelare sono il 34,7% degli stranieri presenti, a fronte del 31,5% degli italiani. Per gli stranieri il ricorso alla custodia cautelare è evidentemente più frequente.
Gli stranieri commettono reati meno gravi, dunque scontano pene meno lunghe. Il 57,8% dei detenuti stranieri condannati ha una pena inflitta inferiore o uguale a 5 anni. Per gli italiani questa percentuale è del 35%.
LE DONNE DETENUTE SONO UN’ESIGUA MINORANZA MA SOFFRONO IL SOVRAFFOLLAMENTO PRODOTTO DAGLI UOMINI. IL 75% DELLE DONNE DETENUTE È ALLOCATO IN SEZIONI FEMMINILI ALL’INTERNO DI CARCERI
MASCHILI, COSA CHE LIMITA LO SVOLGIMENTO DI ATTIVITÀ
Le donne detenute nelle carceri italiane al 31 luglio 2020 sono 2.248 su un totale di 53.619 persone ristrette. A fine aprile le donne erano 2.224 su 53.904 presenti. Quella femminile è storicamente una piccola minoranza, oggi pari al 4,19% del totale. Negli ultimi trent’anni la presenza femminile in carcere è sempre oscillata tra i 4 e i 5 punti percentuali.
Sono solo 4 gli istituti penitenziari interamente femminili in Italia, che ospitano in totale 554 donne, un quarto della popolazione detenuta femminile. Si trovano a Roma (307 donne detenute a fronte di una capienza di 206 posti, con tasso di affollamento pari al 167%), a Pozzuoli (106 detenute, 100% dei posti occupati), a Trani (30 donne detenute a fronte di 42 posti) e a Venezia (111 detenute per 75 posti, con tasso di affollamento del 167%).
Ma il 75% delle donne detenute si trova nelle 43 sezioni femminili ubicate all’interno di carceri maschili, sparse in tutte le regioni del Paese, con capienze e modelli organizzativi molto diversi tra loro: la più piccola si trova a Paliano (Lazio) dove sono ristrette 2 donne, le più grandi, che ospitano oltre cento detenute, sono Milano Bollate (118), Torino (110) e Firenze Sollicciano (114).
Le donne detenute straniere sono 793, il 35% del totale delle donne detenute. Gli uomini stranieri detenuti sono percentualmente di meno.
Se si analizzano gli accessi alle misure alternative al carcere, in particolare alla detenzione domiciliare ex lege 199/2010, temporaneamente modificata dal decreto “Cura-Italia”, si nota che le donne ne usufruiscono in percentuale maggiore rispetto agli uomini. Sul totale degli oltre 28.000 detenuti cui è stata concessa questa modalità di detenzione domiciliare da momento dell’entrata in vigore della legge al 31 luglio 2020, il 7% è costituito da donne (il 9% delle quali sono straniere).
ANCORA 33 BAMBINI IN CARCERE O ICAM CON LE LORO MAMME
Al 31 luglio vivono in carceri ordinarie o negli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per Madri) con le loro madri 33 bambini di età inferiore ai tre anni. Il gruppo più numeroso (8 bambini) si trova a Torino, 6 sono i bambini a Rebibbia femminile e 7 nell’ICAM di Lauro, in Campania.
Le madri detenute con figli al seguito sono 31 (15 straniere e 16 italiane). A fine aprile i bambini detenuti erano 40 ed erano 59 a fine febbraio.
LE MISURE ALTERNATIVE AL CARCERE INTRODOTTE DAL DECRETO CURAITALIA SONO SCADUTE IL 30 GIUGNO
Gli artt. 123 e 124 del decreto-legge 17 marzo 2020 n.18 (c.d. Cura-Italia) hanno introdotto da un lato modalità speciali per l’accesso alla detenzione domiciliare, dall’altro l’estensione delle licenze per i detenuti semiliberi. Entrambe le misure erano a termine, valide fino al 30 giugno 2020. L’obiettivo era quello di far fronte nell’immediato all’emergenza sanitaria in corso, contribuendo alla deflazione della popolazione detenuta.
3.379 PERSONE ANDATE IN DETENZIONE DOMICILIARE. SOLO 975 BRACCIALETTI ELETTRONICI DISPONIBILI A FRONTE DEI 5.000 PREVISTI DAL DECRETO CURA-ITALIA
Al 20 maggio le persone andate in detenzione domiciliare durante l’emergenza sanitaria erano 3.379. Di queste, a 975 era stato applicato il braccialetto elettronico (Fonte: Garante nazionale). I braccialetti elettronici diventati operativi negli ultimi mesi sono molti meno di quelli promessi nell’accordo tra ministeri dell’Interno e della Giustizia (300 a settimane), a conferma che si tratti di una misura costosa e di difficile applicazione. I semiliberi a cui è stata estesa la licenza sono stati 561.
100.000 PERSONE SONO IN ITALIA SOTTO CONTROLLO PENALE. AFFIDAMENTO AI SERVIZI SOCIALI E DETENZIONI DOMICILIARI DAL 2008 CRESCIUTI DI OLTRE IL 400%
Rispetto alle misure alternative va infine sottolineato quanto già detto negli ultimi rapporti, ovvero che nel corso degli ultimi anni si sono espanse in maniera molto importante, contribuendo da un lato a contenere i numeri della popolazione detenuta ma dall’altro facendo aumentare il numero complessivo di persone sotto controllo penale, che al 15 aprile 2020 erano circa 110.000 (considerando sia la popolazione detenuta che quella in misura alternativa). I numeri sono molto eloquenti. Nel 2008 le persone in affidamento in prova ai servizi sociali erano 4.000; a fine 2013 erano divenute 11.109, a fine 2018 16.612, a fine 2019 18.179 e infine al 15 aprile 2020 erano
18.598. Una crescita simile ha riguardato i soggetti in detenzione domiciliare, che nel 2008 erano
2.257 e 5 anni dopo, nel 2013, dunque dopo l’arrivo della legge 199/2010, 10.173, per arrivare a
10.826 il 15 aprile 2020.
NEL 2020 GIÀ 34 SUICIDI NELLE CARCERI ITALIANE. IL 63% AVEVA MENO DI 40 ANNI. IL PIU’ GIOVANE 23 ANNI
Sono 34 i suicidi che hanno avuto luogo dall’inizio del 2020 fino al primo agosto (l’anno scorso in questo periodo erano stati 26, quando la popolazione reclusa era di varie migliaia di unità in più). In circa il 60% dei casi si tratta di italiani e nel 40% di stranieri. Il 20% di loro aveva fra i 20 e i 29 anni (i due più giovani ne avevano solo 23), il 43% ne aveva fra i 30 e i 39, per entrambe le fasce d’età 40-49 e 50-59 troviamo il 17% dei suicidi, il detenuto più anziano aveva 60 anni. Il 40% dei suicidi è avvenuto in un istituto del nord Italia, il 36% al sud e il 23% al centro; in tre istituti sono avvenuti due suicidi: Como, Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. A gennaio, marzo e aprile sono avvenuti 9 suicidi (3 per ciascun mese), a febbraio e a luglio ne sono stati commessi 12 (6 per ciascun mese) mentre a maggio e a giugno ne sono avvenuti rispettivamente 4 e 5. Il metodo prevalente per togliersi la vita è rimasto quello tragico dell’impiccagione (ben 26 persone). Nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani per un tasso di 8,7 su 10.000 detenuti mediamente presenti, a fronte di un tasso nel paese di 0,65 suicidi su 10.000 abitanti. In carcere nel 2019 ci si è tolti la vita 13,5 volte di più che all’esterno.
ATTI DI AGGRESSIONE E AUTOLESIONISMO IN LINEA CON GLI ANNI PRECEDENTI
Altri eventi critici vengono riferiti dal Garante Nazionale nella sua relazione annuale. I dati al 30 aprile 2020 indicano un forte aumento – causato dagli eventi dei primi mesi del 2020 – delle rivolte, che passano dalle 2 degli anni scorsi alle 37 di quest’anno. Alla stessa data gli isolamenti sanitari (1.567) sono addirittura quasi quattro volte il numero degli isolamenti sanitari messi in atto nel corso di tutto l’anno precedente (425). Lo stesso è valido per le manifestazioni di protesta collettiva (859) che sono i tre quarti di tutte le manifestazioni di protesta collettiva dell’anno scorso (1.188). In proporzione risultano leggermente più alti anche i numeri delle aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria – 311 rispetto alle 827 del 2019, degli atti di contenimento – 220 rispetto ai 488 del 2019 e di altre manifestazioni di protesta individuale – 4.388 rispetto ai 12.146 del 2019. Invece in proporzione sono in linea con gli anni precedenti il numero di altri atti di aggressione, degli atti di autolesionismo, delle infrazioni disciplinari e dei tentati suicidi. Infine risultano in proporzione inferiori gli isolamenti disciplinari – 519 rispetto ai 1.908 del 2019 e si riducono drasticamente i trasferimenti urgenti in ospedale – 2.781 contro i 12.361 del 2019. Interessante notare che nel 2019 il DAP ha aggiunto una categoria di evento critico, ovvero le percosse riferite all’atto dell’arresto di cui si segnalano 248 atti nel 2019 e 49 nei primi quattro mesi del 2020.
LO SGUARDO DI ANTIGONE SUL CARCERE POST-COVID: UNO STUDIO SU 30 ISTITUTI TRA I PIÙ GRANDI D’ITALIA
Per provare a descrivere lo stato attuale del sistema penitenziario nazionale di fronte alla pandemia, ed in particolare l’attuale stato di applicazione delle restrizioni adottate a partire dalla fine di febbraio, abbiamo provato a fotografare la situazione di 30 istituti sparsi per tutto il paese.
Il campione non intende essere rappresentativo in senso tecnico, ma è certamente significativo dato che comprende molti tra gli istituti più grandi del paese. Dei 30 istituti monitorati 6 sono in Lombardia, 5 in Sicilia, 5 in Lazio e 5 in Campania, 2 in Puglia, 2 in Toscana, 2 in Piemonte, 2 in
Umbria ed 1 in Calabria: Augusta, Avellino, Bergamo, Biella, Caltagirone, Catanzaro, Civitavecchia, Firenze “Sollicciano”, Lecce, Milano “Bollate”, Milano “Opera”, Milano “San Vittore, Monza, Napoli “Poggioreale”, Napoli “Secondigliano”, Palermo “Ucciardone”, Pavia, Prato, Roma “Rebibbia NC”, Roma “Regina Coeli”, Salerno, Santa Maria Capua Vetere, Siracusa, Spoleto, Taranto, Terni, Torino, Trapani, Velletri, Viterbo.
Distribuiti dunque in ben 9 regioni questi 30 istituti da soli ospitano 23.601 detenuti, il 44% di tutta la popolazione detenuta d’Italia. In questo senso il campione individuato risulta certamente significativo e le informazioni raccolte dal 20 luglio in poi utili ed attuali.
RIPRESI I COLLOQUI CON I FAMILIARI. SOLO IN 6 CARCERI NE VIENE CONCESSO UNO AL MESE
Tramite i nostri osservatori, il personale degli istituti e la collaborazione dei garanti locali e delle associazioni della società civile abbiamo cercato di capire anzitutto se e come fossero ripresi i colloqui in presenza con i familiari, la più pesante delle restrizioni in vigore. Ebbene, nella misura minima di uno al mese, i colloqui sono ripresi ovunque ed in effetti solo in sei tra gli istituti monitorati, per lo più in Lazio ed Umbria, ci si è limitati alla misura minima prevista dalla legge.
Nel 60% dei casi la ripresa dei colloqui è stata più ampia, consentendo generalmente due colloqui al mese.
I colloqui vengono effettuati adottando diverse misure di prevenzione (separazioni in plexiglass, mascherine, controllo della temperatura, etc.) ma varia significativamente il numero delle persone ammesse a colloquio. Molto spesso è consentito l’accesso ad un solo familiare ma in alcuni istituti i familiari possono essere due, un adulto ed un minore (ad es. a Lecce, Caltagirone o Regina Coeli) o 3 come a Viterbo.
IN QUASI TUTTI GLI ISTITUTI MANTENUTI I PROVVEDIMENTI SU CHIAMATE E VIDEOCHIAMATE VARATI DURANTE LA FASE DELL’EMERGENZA. TUTTAVIA QUESTE ULTIME VENGONO CONSIDERATE ALTERNATIVE AI COLLOQUI IN PRESENZA
Nonostante la ripresa dei colloqui in 19 istituti, il 63% del nostro campione, si continuano a concedere telefonate oltre i limiti in vigore prima della pandemia.
Quanto alle videochiamate, sostanzialmente vengono effettuate ancora in tutti gli istituti oggetto del monitoraggio (86,7%). Nella maggior parte di questi però sono di fatto divenute alternative ai colloqui con i familiari, cumulabili con questi e conteggiati nel numero massimo di colloqui consentito. In pratica sta attualmente ai detenuti ed ai loro familiari decidere se preferiscono fare il colloquio in presenza o una videochiamata. Sarebbe auspicabile che, visto il buon esito della misura e gli scarsi problemi di sicurezza incontrati, le videochiamate si aggiungessero ai colloqui visivi e non fossero alternativi a questi. Si tratta peraltro di modalità di comunicazione che spesso raggiungono persone diverse. I lunghi spostamenti per i colloqui spesso risultano eccessivamente faticosi per genitori anziani o figli piccoli, che possono in questo caso preferire le videochiamate senza gravare sul numero massimo di colloqui che un detenuto può fare con altri familiari.
NEL 23% DEGLI ISTITUTI MONITORATI ANCORA NON ENTRANO PERSONE DALL’ESTERNO
Nella maggior parte degli istituti monitorati sono riprese anche le attività che presuppongono l’ingresso di persone dall’esterno ma in 7 (il 23%) continua a non entrare nessuno da Marzo o quando qualcuno entra, come a Prato, a Monza o a Siracusa per il rifornimento del magazzino vestiario per i detenuti indigenti, non ci sono comunque contatti con i detenuti.
Dove i volontari entrano vengono comunque spesso (ma non sempre) contingentati i numeri e sono in ogni caso attuate tutte le misure necessarie per la prevenzione dei contagi.
NEL 60% DELLE CARCERI I DETENUTI HANNO RICOMINCIATO AD USUFRUIRE
DEI PERMESSI. ANCHE SE LA QUARANTENA OBBLIGATORIA DI 14 GIORNI SCORAGGIA DALL’USCIRE
Quanto ai permessi, ci risulta che i detenuti siano tornati ad uscire nel 60% degli istituti monitorati.
Variano però molto le misure adottate al rientro in carcere. In molti istituti (ad es. Pavia, Velletri, Civitavecchia) al rientro vengono effettuati 14 giorni di quarantena, cosa che scoraggia molti detenuti ad usufruire dei permessi. In altri casi, come in Puglia, i detenuti una volta rientrati sono sottoposti a isolamento fiduciario di 72 ore. Vengono poi sottoposti al tampone il cui esito arriva nell’arco di qualche ora. E a questo punto, se negativi, rientrano in sezione
A RISCHIO L’UTILIZZO DELLE VIDEOCHIAMATE PER MOTIVI DIDATTICI E FORMATIVI
Preoccupante la prospettiva rispetto all’uso delle videochiamate dopo la fine dell’emergenza. Nella maggior parte degli istituti monitorati non è infatti chiaro se questo strumento, rivelatosi prezioso per garantire contatti con l’esterno, verrà in futuro mantenuto per facilitare quelle attività che non è possibile, o ragionevole, svolgere in presenza. Solo un istituto ha espressamente risposto di no a questa domanda (Trapani) ma la maggior parte degli altri non sono stati in grado di fornire indicazioni chiare. In molti casi peraltro le videochiamate in questi mesi sono state usate solo per i colloqui con i familiari, non ad es per la didattica a distanza. Non mancano però le eccezioni. A Caltagirone è in corso ad es. il cablaggio per 9 aule scolastiche, e si pensa, come anche in altri istituti (Bergamo, Catanzaro) possano proseguire alcune attività di didattica a distanza, arricchendo l’offerta formativa a disposizione dei detenuti.
In alcuni casi gli istituti, su questo come su altri temi, hanno dichiarato di attendere indicazioni dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Noi ci auguriamo che, come già accaduto in passato per i colloqui con i familiari, ed a maggior ragione dopo le esperienze positive recenti, il DAP solleciti gli istituti ad allargare il più possibile il ricorso alle videochiamate anche a supporto delle attività trattamentali.
IN QUESTO MOMENTO CI SONO 8 PROCEDIMENTI IN CORSO PER EPISODI DI TORTURA CHE VEDONO IMPLICATI AGENTI DELLA POLIZIA PENITENZIARIA
1. Monza
I fatti risalgono ad agosto 2019 e riguardano la violenta aggressione fisica denunciata da un detenuto. A fine settembre Antigone presenta un esposto, che si affianca alla denuncia presentata dalla vittima. Il magistrato, nel corso del procedimento, ha acquisito le videoregistrazioni relative a quanto accaduto. Nel febbraio del 2020 è stato avviato il procedimento per tortura contro taluni agenti. Le indagini sono attualmente in corso.
2. San Gimignano
A ottobre 2018 un detenuto tunisino avrebbe subito pestaggi brutali. La Procura del Tribunale di Siena nell’ottobre del 2019 ha contestato il reato di tortura nei confronti di quindici agenti di polizia penitenziaria della Casa di Reclusione Nei confronti di 4 poliziotti, a seguito di misura interdittiva disposta dalla procura, il Dap aveva disposto la sospensione dal servizio. Al termine del periodo sono regolarmente rientrati in servizio. Antigone è parte del procedimento in quanto a dicembre del 2019 ha presentato un proprio esposto sui fatti. L’udienza preliminare originariamente fissata per il 23 aprile 2020, a causa dell’emergenza sanitaria è stata rinviata al 10 settembre 2020.
3. Torino
I fatti risalgono al 2017, consistenti in decine di episodi di violenza brutale nei confronti di detenuti denunciati dalla Garante comunale delle persone private della libertà e dal Garante Nazionale. Sono coinvolti 25 agenti e, a diverso titolo, anche il comandante di Reparto e il direttore del carcere. Antigone presenta un suo esposto rispetto a quanto accaduto presso la casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, a seguito di quello presentato dal Garante nazionale. L’inchiesta è condotta dal Nic, gruppo investigativo della Polizia Penitenziaria. Le indagini sono attualmente in corso. Gli agenti sono indagati per tortura. Per altro titolo di reato sono indagati il direttore della Casa Circondariale, il Comandante di reparto, un leader sindacale. L’amministrazione penitenziaria a fine luglio 2020 ha assunto nei confronti di tutti provvedimenti disciplinari. Direttore e comandante sono invece stati spostati in altro istituto.
4. Palermo
A gennaio 2020Antigone viene a conoscenza di un episodio di maltrattamenti nei confronti di una persona detenuta, il quale in Corte di Assise di Appello di Palermo rende dichiarazioni spontanee, denunciando le violenze subite all’arrivo in carcere. La Corte, riscontrati i segni al volto e ascoltato il racconto, trasmette gli atti alla Procura. A seguire Antigone ha presentato un esposto contro gli agenti per tortura e contro i medici per non avere accertato le lesioni. Le indagini sono attualmente in corso.
5. Milano
A marzo 2020, durante l’emergenza sanitaria dovuta al diffondersi del COVID-19, Antigone è stata contattata da molti familiari di persone detenute presso il Carcere di Opera, per le violenze, gli abusi e i maltrattamenti, come punizione per la rivolta precedentemente scoppiata nel I Reparto. A seguire Antigone ha presentato un esposto per tortura.
6. Melfi
A marzo 2020 Antigone è stata contattata dai familiari di molte persone detenute presso il carcere di Melfi, le quali hanno denunciato gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, verso le ore 03.30, come punizione alla protesta scoppiata il 9 marzo 2020 in seguito alle restrizioni conseguenti allo stato d’emergenza sanitaria. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito nemmeno di andare in bagno. Ad esse sarebbero state fatte firmare delle dichiarazioni in cui dichiaravano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e torture.
7. Santa Maria Capua Vetere
Nel mese di aprile 2020 Antigone è stata contattata da diversi familiari di persone detenute presso il reparto “Nilo” della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere per abusi, violenze e torture subite da taluni detenuti. Le violenze sarebbero avvenute nel pomeriggio del 6 aprile 2020 come ritorsione per la protesta svoltasi il giorno precedente dopo il diffondersi della notizia secondo cui vi era nell’istituto una persona positiva al coronavirus. I medici, in base a quanto denunciato, avrebbero visitato solo alcune delle persone detenute poste in isolamento, non refertandone peraltro le lesioni. A fine aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per tortura, percosse, omissione di referto, falso e favoreggiamento.
8. Pavia
A marzo 2020 Antigone è stata contattata dai familiari di alcune persone detenute nel carcere di Pavia che hanno denunciano violenze, abusi, e trasferimenti arbitrari subiti a seguito delle proteste di qualche giorno prima. La polizia avrebbe usato violenza e umiliato diverse persone detenute, colpendole, insultandole, privandole degli indumenti e lasciandole senza cibo. Ai detenuti durante il trasferimento non sarebbe stato permesso di portare nulla dei propri effetti personali né di avvisare i familiari. A fine aprile Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e tortura. Le indagini sono attualmente in corso. Diverse persone sarebbero state già sentite dalle autorità inquirenti.
CONTRASTARE LA VIOLENZA IN CARCERE. LA PROPOSTA DI ANTIGONE PER UN CARCERE COSTITUZIONALE: APERTURA, CONOSCENZA, INCLUSIONE, ATTIVITÀ E NONVIOLENZA
La vita in carcere deve essere ispirata ai principi della responsabilità, della normalità, dell’umanità e dell’utilità. Deve essere riempita di senso e di opportunità per dare corpo a prospettive di risocializzazione ma anche per garantire la sicurezza collettiva. È interesse di tutti che il carcere non sia una fabbrica di criminali. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un andirivieni culturale e politico intorno alla questione carceraria: prospettive di riforma in senso umano-centrico si sono avvicendate a pulsioni ispirate a una netta chiusura.
Il miglior modo per valorizzare il difficile e importante lavoro di coloro che hanno compiti di sorveglianza nelle carceri consiste nell’affrancarli da una logica meramente custodiale e costruire professionalità integrate capaci di affrontare situazioni complesse, con competenze di sicurezza ma anche psicologiche, sociali, educative, linguistiche. La Polizia penitenziaria sarebbe così ben più gratificata.
La sicurezza dinamica è definita dal Consiglio d’Europa (Rec(2003)23, 18. a.) come lo sviluppo da parte del personale di relazioni positive con i detenuti basate sulla fermezza e sulla correttezza, insieme alla comprensione della loro situazione personale e di qualsiasi rischio posto dai singoli detenuti. Ciò presuppone un personale attento, che interagisca in maniera positiva con i detenuti e li coinvolga in attività costruttive al fine di prevenire i problemi prima che si presentino in forme talvolta drammatiche.
Le attività formative, lavorative, ricreative e sportive ricoprono un ruolo fondamentale, aiutando a dare un senso alla pena e tenendo i detenuti fuori dalle celle, in cui dovrebbero trascorrere il minor tempo possibile (Regola 25.2 delle Regole penitenziarie europee del 2020). Da diversi anni in Italia, in particolare dopo l‘adozione della circolare del Ministero della Giustizia del 13 Luglio 2013 “Linee guida sulla sorveglianza dinamica”, il modello della sorveglianza dinamica è stato declinato in parallelo con l’apertura delle celle durante il giorno. Afferma infatti la circolare citata che “le conoscenze sui detenuti risulterebbero fortemente limitate ove il perimetro della loro vita rimanesse confinato nei pochi metri quadri della cella o del corridoio”. Nella relazione conclusiva del novembre 2013 della Commissione ministeriale per le questioni penitenziarie si individuava quale punto determinante di intervento il consistente ampliamento delle ore di apertura delle celle, fornendo quale parametro di riferimento quello delle celle aperte per almeno 8 ore al giorno, partendo dalle sezioni di media sicurezza e prevedendo una graduale estensione della previsione agli istituti circondariali e a sezioni selezionate di alta sicurezza.
Da allora il regime a celle aperte si è diffuso, ma non dappertutto. Ci sono state resistenze a livello periferico. Nei 98 istituti visitati da Antigone nel 2019, nel 35,7% dei casi non in tutte le sezioni le celle erano aperte almeno 8 ore al giorno. In più di un terzo degli istituti i detenuti continuavano a permanere in cella per troppe ore al giorno.
Un bilancio di tale misura negli istituti da noi visitati ci dice che, se nel corso dell’anno precedente erano stati adottati in media 13 provvedimenti di isolamento disciplinare (chiaro indice di conflittualità interna) ogni 100 detenuti, guardando alle carceri in cui non in tutte le sezioni le celle erano aperte almeno 8 ore al giorno la media saliva a 15,5. Qualcosa di analogo succedeva per gli atti di autolesionismo, di cui se ne registravano in media 15 ogni 100 detenuti ma il valore diventava 18,2 negli istituti in cui non in tutte le sezioni le celle erano aperte 8 ore al giorno. Un giudizio ancora più netto si ricava guardando alle rivolte scoppiate nel marzo 2020. Tra gli istituti visitati nel 2019, considerando solo le carceri in cui è scoppiata una rivolta la percentuale di quelle in cui non tutte le celle erano aperte almeno 8 ore al giorno passa dal 35,7% addirittura al 64,3%.
Appare dunque difficile affermare che il sistema a celle aperte rappresenti una minaccia all’ordinata vita negli istituti. Sembra di potersi dire semmai il contrario.
Ma la sola apertura delle celle non basta. La giornata detentiva va riempita di relazioni e attività significative. Ilmondo del lavoro dovrebbe assomigliare il più possibile a quello della comunità libera e preparare alla vita professionale futura (Regola 26 delle Regole penitenziarie europee). Ciò non accade. I detenuti che lavorano (25,8% dei presenti alla fine del 2019) lo fanno in gran parte per l’Amministrazione penitenziaria, svolgendo attività poco professionalizzanti. Solo l’1,5% dei detenuti lavora in carcere per datori di lavoro esterni. Nei 98 istituti visitati da Antigone nel 2019, solo il 6,2% dei detenuti era stato coinvolto in percorsi di formazione professionale, e nel 35% delle carceri non si era svolto alcun corso.
Nel 34,7% delle carceri visitate, non a tutti i detenuti era garantito l’accesso ad una palestra almeno una volta alla settimana mentre nel 30,6% dei casi non tutti avevano accesso almeno una volta alla settimana ad un campo sportivo. Solo il 27,2% dei detenuti era coinvolto in corsi scolastici, che spesso peraltro si tengono nella stessa fascia oraria di altre attività costringendo i detenuti a saltare la scuola. Restano troppo pochi gli studenti iscritti ai corsi universitari, 714 alle fine del 2018.
Per tutte queste attività può essere essenziale il ricorso a quegli strumenti di comunicazione a distanza resi disponibili dalle nuove tecnologiecon cui, durante l’emergenza COVID-19, tutti gli istituti hanno familiarizzato. Questi rappresentano la modalità ordinaria di comunicazione nelle società contemporanee e non si può prescinderne se si vuole preparare la persona a rientrarvi. L’art. 18 dell’O.P., riformato a ottobre 2018, sancisce inoltre il diritto alla libera informazione, da garantirsi anche per mezzo di siti informativi. L’analfabetismo informatico è quanto di più distante dalla possibilità di reintegrazione sociale.
Il carcere non si governa con la mera disciplina ma con ragionevolezza, dialogo e inclusione. Senza entrare nel merito dei regimi selezionati sulla base della pericolosità criminale, va assolutamente evitata una proliferazione di trattamenti e regimi differenziati sulla base del comportamento penitenziario. La sorveglianza particolare, così come l’articolo 32 del Regolamento di esecuzione, andrebbero usati con estrema parsimonia, se non del tutto eliminati. I casi difficili vanno trattati con l’ausilio di una équipe di operatori, non reclusi in sostanziale isolamento. Ugualmente, l’uso della forza va residualizzato e deve seguire protocolli standardizzati. Va rotto il circolo vizioso della violenza e mai vanno usati trasferimenti punitivi.
Si è aperto recentemente un dibattito intorno all’uso della pistola Taser in carcere. L’ONU e il Consiglio d’Europa hanno più volte stigmatizzato il Taser in quanto potenzialmente mortale e mai realmente sostitutiva di armi da fuoco. Un rapporto dell’agenzia Reuters riferisce che dal 2000 a oggi negli Usa sarebbero più di 1.000 i morti nei cui confronti la Polizia aveva usato il Taser. La stessa azienda produttrice, la Taser International Incoporated, ha riconosciuto un fattore di rischio mortale che si aggira intorno allo 0,25%. Studi medici autorevoli riconoscono che il Taser può produrre arresto cardiaco e gravi danni collaterali.
Nel contesto penitenziario in particolare, la presenza di armi costituisce inevitabilmente un fattore generatore di tensione, che va in direzione opposta rispetto alla creazione di un clima interno sereno, premessa per un fruttuoso rientro in società. Gli incidenti che si possono verificare mettono a rischio lo stesso personale. Le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa ribadiscono (Regola 54 delle Mandela Rules e Regola 69 delle Regole penitenziarie europee) che nel perimetro carcerario le armi devono essere proibite, se non in particolari operazioni di emergenza legate a incidenti specifici. L’art. 41 dell’O.P. stabilisce che gli agenti in servizio all’interno non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui venga ordinato dal direttore. Questa del 1975 è frutto di una riforma che ha voluto rendere il carcere un luogo meno violento e conflittuale, più conforme alla Costituzione.
La riduzione del tasso di conflittualità è perseguibile con la promozione di un clima detentivo sereno, un trattamento aperto, occasioni di intrattenimento, di formazione, di istruzione e di informazione. Ben di più che con scariche di elettroshock.