Negli ultimi trent’anni gli italiani sono stati convinti in mille modi che se i padroni, le imprese, fossero state meglio trattate, tutti ne avrebbero goduto. La realtà dimostra che così non è stato e che anzi, mentre i padroni hanno visto crescere i loro profitti, i lavoratori hanno visto svanire i loro diritti e diminuire i loro stipendi.
Nonostante l’evidenza però, quel “prima le aziende” è il mantra che ancora in questi giorni riecheggia prepotente dalle pareti dei Palazzi del potere alle stanze dei giornali e degli studi televisivi di servizio.
Così il padronato italiano si è portato a casa, tra i vari interventi stanziati dal Governo per la crisi pandemica 150 miliardi – una enormità rispetto agli interventi sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza, per i quali proprio Confindustria grida e strepita allo scandalo – e come se non bastasse, alle grida si aggiungono le querule lamentele contro una burocrazia ritenuta inutile per l’impiego di questa montagna di denaro, come se degli imprenditori ci si debba fidare a prescindere.
Difatti, chi ha mai saputo in questi anni di imprese che hanno preso i soldi pubblici e trasferito produzioni e proprie sedi fiscali all’estero?
Chi ha mai letto di padroni che hanno preso soldi pubblici per investimenti mai realizzati?
Chi ha mai sentito di aziende che hanno intascato soldi pubblici, di tutti, ma non hanno pagato mai tasse che servono a pagare i servizi per tutti?
E’ del tutto evidente dunque, come l’imprenditoria italiana non offra grandi dimostrazioni di affidamento e non possa rivendicare granché fiducia, fatti salvi quei casi in cui una ordinaria correttezza sia inevitabilmente necessaria.
La stessa fiducia che la classe padronale italiana ha rivendicato nella pressione esercitata per fare riaprire le attività, chiuse in via precauzionale rispetto al dilagare dell’infezione virale, sostenendo che l’imprenditore sa come “proteggere i propri collaboratori” poiché è il primo a cui sta a cuore la loro salute, trova gravissime smentite.
Imprenditori spregiudicati, smentiti dai dati su morti sul lavoro ed infortuni che nel solo anno 2019, senza Covid 19, registrano una media di 3 morti al giorno e di 641.638 infortuni ( fonte INAIL), che dovremmo credere in ciò che normalmente non garantiscono, dovrebbero garantire in questa situazione eccezionale?
Però la spinta alla riapertura è stata forte, concentrica ed impetuosa, su un Governo che ha poco resistito al ricatto, perché di questo si tratta tra salute e lavoro! ; lo stesso continuo ricatto a cui i cittadini ed i lavoratori di Taranto, della Provincia di Taranto e di tanta parte della Puglia sono piegati da decenni.
Oggi la pandemia ha rimossi i confini di questo disagio, facendo vivere sulla pelle di tutto il Paese la condizione di “ostaggi” sequestrati dal capitalismo. Tutto il Paese è stato spinto dal potere industriale, economico, finanziario e mediatico, a scegliere se morire di pandemia o morire di fame, come se non ci fossero alternative. Un mix di pesante disagio sociale e condizionamento mediatico spinge i lavoratori a convenire con le ragioni dei sequestratori, mentre questi incassano il cospicuo riscatto di 150 milioni di euro.
Noi Comunisti sappiamo come finirà questa vicenda, lo sappiamo perché lavoratori ed abitanti di questa provincia tarantina e di questo territorio meridionale che quotidianamente ne subisce le dannose conseguenze. La fiducia concessa alla classe padronale con la riapertura senza reali garanzie di salubrità sui posti di lavoro e la grande iniezione di soldi pubblici non salverà il lavoro degli italiani.
A Taranto infatti la ricetta non ha funzionato !, anzi per moltissimi versi la fiducia riposta nel privato ha peggiorato le condizioni: i problemi della salute pubblica non sono stati risolti e si continuano a perdere posti di lavoro.
Si è voluto vendere ad Arcelor Mittal fidandosi degli impegni presi e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Altri 1000 lavoratori sono stati posti in cassa integrazione riducendo ulteriormente la forza lavoro, ormai lontanissima dall’impegno sottoscritto che la fissava in 10.000 dipendenti, mentre tuttora assenti sono gli interventi di bonifica e sicurezza tanti acclamati dalle parti contraenti.
Questa volta la cassa integrazione non è stata nemmeno comunicata direttamente; i lavoratori si sono trovati difronte cancelli chiusi e tornelli bloccati: avrebbero dovuto leggere la notizia sul sito web aziendale ! .
Cassintegrati via web secondo i dettami modernisti di intensificato sfruttamento del lavoro smart-working.
Oggi Acelor Mittal sta facendo di tutto per farsi cacciare, visto che quello che voleva lo ha già preso in un anno e mezzo di presenza: le quote di mercato!
Non siamo certamente contenti di dover dire: era prevedibile! lo avevamo denunciato per tempo!, perché questo riguarda la vita ed il reddito nostro e di migliaia di nostri concittadini lavoratori e loro famiglie.
Non siamo contenti di essere facili profeti, perché tutto questo malessere sociale colpisce la nostra Città, il nostro territorio, il nostro Paese, ma non possiamo continuamente subire il ricatto d’un lavoro scambiato con salute, rimanendo continuamente nelle mani di chi genera il ricatto.
E’ per questo che da oltre 8 anni il PCI a Taranto come nel resto dell’Italia continua a sostenere, in ogni occasione di incontro e con ogni forma di comunicazione, che l’unica soluzione per l’EX-ILVA è la sua nazionalizzazione.
Di fronte ai lavoratori tutti, di fronte alla Città di Taranto, di fronte alle mobilitazioni delle Organizzazioni Sindacali, di fronte alle forze politiche rispettose della Costituzione della Repubblica Antifascista, il Partito Comunista Italiano continua a sostenere, ancora e più fermamente, che solo un piano strategico di nazionalizzazioni importanti può rappresentare la corretta via di uscita dalla crisi anche etica e morale che attanaglia l’Italia ed offende i suoi lavoratori.