La domanda di acciaio è crollata, la pandemia è stata devastante per la siderurgia. Ma non può essere una scusa per smantellare la ex Ilva.
Bisogna cambiare rotta evitando che la siderurgia italiana precipiti nel baratro. I lavoratori diretti e dell’appalto di ArcelorMittal continuano a pagare il prezzo più alto, a causa di un vuoto ormai consolidato di politica industriale in questo Paese. Le aziende, italiane o straniere che siano, quando vedono assenti o distanti le istituzioni hanno un buon alibi per fare da sole e come gli conviene.
E così accade oggi nel gruppo ArceloMittal, dove regna sovrana l’incapacità di gestione da parte di un management, che sta portando lo stabilimento allo sbaraglio, con la complicità istituzionali, locali e nazionali.
Le notizie che giungono da nord a sud, dai vari siti produttivi ArcelorMittal sono tutt’altro che confortanti.
Si registrano anomalie nelle relazioni industriali; vengono annunciati alle organizzazioni sindacali assetti di marcia e ripartenze di impianti per poi, a distanza di pochi minuti, riaggiornati o cancellati in autonomia.
A Novi Ligure l’azienda sta fermando gli impianti per mancanza spedizioni. Rimarrà in servizio il minimo indispensabile della forza lavoro. Tutto questo a soli tre giorni di distanza dall’annunciata partenza della Elettrozincatura, inspiegabilmente bloccata.
Spostandoci su Genova la situazione risulta identica. Qui, mentre si stava ragionando sulla ripartenza delle due Zincature, è stata fermata la Banda zincata.
Scendendo verso sud, a Salerno tutta la produzione è ferma dal 23 marzo per emergenza Covid-19. L’azienda aveva ipotizzato una graduale ripartenza dal 4 maggio, ma così non è stato. Contrariamente alle previsioni hanno provveduto a fermare anche le piccole manutenzioni in programma, secondo direttive centrali di ArcelorMittal.
Capitolo che merita sicuri approfondimenti quello di Taranto, dove in fabbrica il clima si sta facendo rovente. La pazienza dei lavoratori è terminata.
Da ieri l’azienda, contrariamente alle comunicazioni date negli ultimi giorni ai rappresentanti sindacali, ha deciso unilateralmente di cambiare programma fermando impianti e allargando la platea dei cassintegrati.
Nelle ultime ore sono stati prorogati i periodi di cassa integrazione per i lavoratori dei reparti: Altoforno, Man Ref Afo (manutenzione refrattari), Macchina a colare Man Afo; Manutenzione parchi; Agl (agglomerato); Officine centrali di manutenzione; Ima (sbarchi materie prime e imbarco prodotti). E ancora in Cokeria e batterie in 90% delle manutenzioni è stato posto in cassa integrazione. Cassa anche per i lavoratori dei Laboratori, Amministrazione. Metà della forza lavoro del Sil (sicurezza) e della Programmazione logistica in cassa integrazione. Già nel pomeriggio di ieri l’azienda aveva comunicato ai sindacati un nuovo assetto di marcia di alcuni impianti come Produzione lamiere (Pla), Decapaggio, Decatreno, Zincatura 2 e Treno nastri 2. Una “retromarcia” rispetto all’assetto annunciato lo scorso 5 maggio.
Quadro complessivamente complesso e preoccupante che accresce dubbi sulla continuità produttiva di ArcelorMittal. È giunto il momento di uscire allo scoperto evitando di aggiungere ulteriori malumori in un clima già appesantito dalle varie vicissitudini.
Il ricorso alla cassa integrazione sta esplodendo, bisogna smetterla di pensare alle istituzioni, e al Mise in questo caso specifico, come una macchina della propaganda.
L’area di gestione delle crisi va rafforzata, contrariamente a quanto fatto da questo governo. È sempre più frustrante portare i lavoratori al ministero e accorgersi che il lavoro di gestione delle crisi non viene più svolto. Chiediamo al Ministro Stefano Patuanelli di puntare sull’industria e sulle infrastrutture con un sostegno reale all’innovazione tecnologica e organizzativa. La vertenza ArcelorMittal va risolta in maniera definitiva.
La gestione sottotraccia della vertenza ha provocato solo danni. Bisogna uscire allo scoperto.
Roma, 15 maggio 2020