Sulla vicenda relativa alla ex Ilva, mentre si attende la proposta ufficiale del governo relativa ad un possibile nuovo piano industriale, interviene il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani:
“Quella di Taranto è la perfetta rappresentazione di come un problema ambientale noto da decenni, sottovalutato dalle istituzioni nazionali e locali, non può che diventare una bomba sanitaria e occupazionale con evidenti effetti sociali devastanti.
Da qualche anno per certi versi a Taranto è stata scoperta l’acqua calda. Nell’estate del 2012, quando la magistratura sequestrò senza facoltà d’uso gli impianti dell’area a caldo dell’acciaieria più grande d’Europa allora di proprietà dei Riva, l’Italia finalmente scoprì i costi, ambientali e sanitari, che pagava da decenni la comunità ionica per sostenere le convenienze della produzione italiana di acciaio.
Una crisi scoppiata in ritardo rispetto alle altre aree del Paese colpite da una cattiva industrializzazione: in una città del Sud per varie ragioni il ricatto occupazionale trova meno resistenze. Come dimostrano le vicende di queste ultime settimane, a seguito delle scelte spregiudicate della multinazionale Arcelor Mittal, il passare degli anni e delle proprietà, i numerosi interventi normativi, il succedersi di cinque governi e di vari commissari, non sono serviti a trovare una soluzione. Il bubbone è ancora lì, anzi oggi la situazione è più intricata e drammatica di sette anni fa.
Legambiente, coraggiosamente, non si è mai schierata con le semplificazioni che hanno contrapposto le due tifoserie “il lavoro a tutti i costi” e “la fabbrica va chiusa”. Abbiamo consapevolezza della complessità della vicenda per l’intricato intreccio, diventato nel frattempo più perverso, tra la dimensione locale di una città sofferente e quella globale del mercato dell’acciaio, tra questioni occupazionali e problematiche sanitarie e ambientali, tra necessità produttive della nostra manifattura e (totale assenza di) politiche industriali, tra un Sud sempre più depauperato di risorse umane e produttive e la voglia di riscattarsi, innovando prodotti e processi nella prospettiva di una riconversione ecologica dell’economia. Vicenda, quindi, da affrontare con umiltà, serietà, lungimiranza, cosa che finora non è accaduta.
Le norme e i Piani di risanamento ambientale (non realizzati) approvati dai vari governi, annunciati con le roboanti promesse che avrebbero reso compatibile il lavoro e la salute, finora non sono riusciti a salvaguardare né l’uno né l’altra. Ora basta con l’ipocrisia.
Anche in queste settimane si continua a intervenire sugli effetti e non sulle cause, si tenta di mettere un freno all’emorragia dei posti di lavoro e della produzione, continuando a mettere in secondo piano il risanamento ambientale e la salvaguardia della salute.
C’è un solo modo per tutelare posti durevoli di lavoro e garantire un futuro alla produzione di acciaio a Taranto, segnata da un pesante tributo di malattie e morti, ed è il rispetto della salute. Solo così si può evitare l’ulteriore deindustrializzazione del Sud.
C’è uno strumento per farlo su basi scientifiche ed è la Valutazione preventiva dell’impatto sanitario oltre che ambientale (VIIAS) che chiediamo dal 2013. Uno strumento che non si è voluto mai utilizzare, per paura di perdere posti di lavoro e quantità produttive. Nel frattempo, si sono comunque persi i posti di lavoro e si sono acuite le ferite nella comunità ionica, rendendola più fragile e lacerata.
La VIIAS permetterebbe di definire se e quanto si può produrre nello stato attuale degli impianti e quanto si potrà produrre a Piano ambientale realizzato. Sia che il gestore degli impianti sia ancora Arcelor Mittal, sia che siano i Commissari di Ilva in Amministrazione
Straordinaria o chiunque altro ancora. Questa sarebbe la vera e unica immunità accettabile: nessuno che gestisca l’impianto correttamente potrebbe poi essere accusato di creare malattie e morti. Solo in questo ambito può essere meglio disciplinata la questione delle responsabilità nella conduzione degli impianti.
Contemporaneamente si mettano in atto strumenti utili, ammortizzatori sociali e alternative occupazionali, per i lavoratori che risultassero in esubero. Tra l’altro, questi strumenti sarebbero comunque messi in atto per soddisfare le convenienze di Arcelor Mittal.
Insomma, si tiri fuori un po’ di coraggio e si utilizzi finalmente la bussola della tutela della salute e dell’ambiente per orientarsi in questa drammatica situazione. E, mentre si sperperano i proclami su un diverso sviluppo per la città ionica, il governo si ricordi di dare seguito ai progetti previsti nel Contratto Istituzionale di Sviluppo, evitando nuovi intollerabili blocchi, e si occupi delle bonifiche su cui si sono fatti ben pochi progressi nonostante siano trascorsi ormai quasi 7 anni dalla nomina del primo commissario straordinario alla bonifica di Taranto.
Un green new deal e una speranza per la città ionica non può non partire dalla bonifica e dalla valorizzazione del territorio e, aggiungiamo, non può prescindere dal cominciare fin da ora a costruire le condizioni affinché, in un futuro non troppo lontano, la produzione di acciaio veda l’introduzione di tecnologie innovative che mandino in soffitta l’utilizzo del carbone e impianti capaci di abbattere drasticamente le emissioni inquinanti.
Insomma, cercasi disperatamente una politica industriale che dia un futuro pulito alla produzione industriale in Italia, fatto di innovazione di processo e prodotto e di integrazione completa degli impianti nel territorio.
Questo richiamo vale per il governo del Paese come per la classe dirigente delle imprese. Perché il declino dell’industria pesante, dalla siderurgia a Bagnoli alla chimica a Marghera, lo abbiamo già visto. E visto che l’eredità lasciata è fatta solo di colossi arrugginiti, bombe ecologiche mai bonificate, lavoratori lasciati a casa e dati epidemiologici da far paura, vorremmo evitare che tutto questo si ripetesse in tutta Italia a partire da Taranto e Brindisi in Puglia, nel siracusano, a Gela o a Milazzo in Sicilia”