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Cellino San Marco: ripristino della custodia cautelare in carcere per D.D, arrestato nel settembre 2017 nell’ambito dell’operazione Omega bis.

Redazione by Redazione
2 Dicembre 2018
in Brindisi, Puglia
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A Cellino San Marco, i Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Brindisi, coadiuvati dal personale del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Brindisi, hanno dato esecuzione a un’ordinanza di ripristino della Custodia Cautelare in Carcere, emessa dal Tribunale del Riesame di Lecce, nei confronti di D.D., 40enne del luogo, già tratto in arresto il 20 settembre 2017, unitamente ad altri 49 soggetti, nel corso dell’operazione “Omega bis”. Il provvedimento è scaturito a seguito dell’accoglimento dell’appello proposto dal P.M. della Procura della Repubblica di Lecce – Direzione Distrettuale Antimafia – Dott. Alberto Santacatterina, avverso l’ordinanza del G.U.P. del Tribunale di Lecce del 13 aprile 2018, con la quale aveva disposto la revoca della misura cautelare in carcere. In sostanza, la Suprema Corte, in conformità all’accoglimento del ricorso proposto dal Pubblico Ministero, al Tribunale del Riesame di Lecce, che aveva a sua volta già stabilito la fondatezza dell’appello, ha rigettato il ricorso del D.D., e di fatto ribadito quanto già stabilito in precedenti pronunzie, che hanno formato giurisprudenza consolidata nel merito. È stato infatti nuovamente precisato che non è sufficiente il solo decorrere del tempo per stabilire la non appartenenza di un individuo ad una associazione di tipo mafioso, (quando le indagini condotte poco tempo prima, ne dimostravano la contiguità) motivo alla base del quale era stato posto in libertà nel mese di aprile  scorso l’odierno arrestato.

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Il D.D., dopo le formalità di rito, è stato tradotto presso la casa circondariale di Brindisi.

Il 20 settembre 2017, i Carabinieri di Brindisi, nell’intera provincia di Brindisi e in quella della limitrofa Lecce, diedero esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere – emessa dal GIP del Tribunale di Lecce su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia – nei confronti di 50 indagati ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso in omicidio, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, porto e detenzione illegali di arma da fuoco e spaccio di sostanze stupefacenti, tutti i reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso.

L’indagine, avviata dal Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Brindisi nel settembre 2012 a seguito dell’omicidio di Presta Antonio, figlio di un collaboratore di giustizia, consentì, in particolare, di:

–   identificare in C.S. quale autore dell’omicidio;

–   delineare l’organigramma e gli assetti organizzativi territoriali della cosiddetta frangia “mesagnese” della Sacra Corona Unita, al cui vertice si sono avvicendati quattro persone operanti, principalmente, nei comuni meridionali della provincia di Brindisi;

–   identificare i sodali di due articolate associazione finalizzate al traffico illecito di sostanze stupefacenti (cocaina, hashish e marijuana) con basi operative, rispettivamente, nei comuni brindisini di San Donaci e Cellino san Marco;

–   scoprire che B.C. e A.S. sono gli autori dell’attentato dinamitardo perpetrato il 19 dicembre 2012 in pregiudizio di un immobile di proprietà del Comandante della Stazione di San Donaci, Luogotenente Francesco LAZZARI, acclarando che il movente del delitto era riconducibile all’intensificazione dell’attività repressiva messa in atto dalla citata Stazione dalla data di assunzione del comando (7 luglio 2012) del nominato L.;

–   riscontrare le propalazioni di 16 collaboratori di giustizia.

Le attività d’indagine, come accennato, vennero avviate in conseguenza all’omicidio di A.P, verificatosi in San Donaci il 5 settembre 2012, figlio di G.P., già collaboratore di giustizia, esponente di spicco, negli anni ’90, della “Sacra Corona Unita”.

Sin dalle prime fasi delle indagini risultò evidente che l’omicidio era da ricondurre alla gestione delle attività illecite, in particolare la piazza di spaccio, perpetrate nei territori di San Donaci e Cellino San Marco.

Venne appurato infatti che A.P., unitamente alla sorella Daniela, e con l’avallo dell’allora convivente di quest’ultima, P.S., in quel periodo detenuto, stavano assumendo il predominio per la gestione del traffico di sostanze stupefacenti a Cellino San Marco tentando di scalzare C.S., fratello di P., convivente della donna, all’epoca a capo di una compagine criminale dedita allo spaccio di stupefacenti in quel comune.

In tale contesto, venne accertato che il 15 agosto 2012, A.P., unitamente alla sorella D.P., avevano incendiato un’abitazione di C.S., approfittando di un periodo di assenza di questo e della sua famiglia.

Proprio in conseguenza di questo incendio, C.S., il 5 settembre successivo, unitamente ad altro individuo, che non è stato possibile individuare, si rendeva responsabile dell’omicidio di A.P..

Le successive indagini consentirono di individuare gli esponenti di due gruppi criminali inseriti in contesti mafiosi, operanti nei comuni di San Donaci e Cellino San Marco, facenti capo rispettivamente a P.S. e ai fratelli C. e P.S., operanti nel settore del traffico e spaccio di sostanze stupefacenti e che si avvalevano anche della disponibilità di armi da fuoco per imporre la loro egemonia in quei territori.

Invero, P.S., dopo la sua scarcerazione avvenuta nel febbraio 2013, era entrato inizialmente in contrasto col fratello C. per poi riappacificarsi e rientrare a pieno titolo nella compagine criminale.

I gruppi sandonacese e cellinese, attraverso i rispettivi capi, i luogotenenti ed i gregari operavano in simbiosi e nel pieno rispetto territoriale, evitando pericolose sovrapposizioni e sconvenienti disaccordi. Si era creato, anzi, una sorta di mutuo soccorso – tra essi – nella gestione delle illecite attività, ma anche nel commettere atti intimidatori, come quello ai danni dell’abitazione del Comandante della Stazione Carabinieri di San Donaci (commesso da B.C. e A.S.) sia che trattasse di approvvigionare droga per le rispettive piazze di spaccio.

I due gruppi criminali concentravano le loro energie nell’espansione dei propri interessi attraverso nuove alleanze e canali di approvvigionamento di sostanze stupefacenti in particolare per l’acquisto della cocaina, da immettere sul mercato con enormi vantaggi economici per entrambi.

L’assenza di lotte intestine favorivano lo sviluppo delle attività criminali dei due gruppi consentendo agli appartenenti di trarne agevole sostentamento, anche per quelli detenuti e per i loro nuclei familiari.

P.S., capo indiscusso del sodalizio di San Donaci, si avvaleva dei suoi luogotenenti F.C. (poi detenuto e sostituito dal suo fedele A.S.) e B.C..

Questi, attraverso il club “LE MASSÈ” di San Donaci, gestivano il mercato dello spaccio di sostanza stupefacente. Proprio a di fronte al dal club – luogo di incontro e di spaccio – è stato consumato l’omicidio di A.P.

Altro interesse del gruppo di San Donaci erano le armi, reperite per il tramite del cittadino slavo G.H., che le faceva giungere dall’Est Europa.

Il gruppo di Cellino San Marco, come detto guidato dai fratelli S., si avvaleva dell’operato dei propri luogotenenti M.P. e S.E. e di una capillare rete di spacciatori, che spacciavano cocaina sia nel centro abitato di Cellino San Marco (per le vie del paese, presso la sala giochi denominata e presso altri esercizi pubblici) e sia nei paesi limitrofi (Guagnano).

La droga veniva approvvigionata da vari canali, naturalmente Torchiarolo, ma anche Oria, Brindisi e Lecce.

Con l’operazione del 20 settembre 2017, che sferrò un nuovo duro colpo alla criminalità organizzata brindisina, venne confermato quanto già emerso in precedenti indagini, in particolare la volontà dei gruppi criminali di operare in armonia senza giungere a scontri ma cercando di collaborare, nonché il ritorno al rito di affiliazione, come testimoniava la conversazione captata nell’autovettura in uso a G.L. nel maggio 2014. Nel corso di numerosi dialoghi G.C., che doveva a breve fare “la condanna buona” (così la definirono nel colloquio), si informava e cercava di memorizzare la formula che a lui sarebbe stata richiesta di pronunciare nel corso del rituale.

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