Si è detto per mesi, da più parti, che Taranto deve superare la monocultura dell’acciaio. Lo hanno chiesto coloro che auspicavano la chiusura della grande fabbrica o perlomeno dell’area a caldo, ma anche coloro che ne auspicavano la continuità produttiva ma nel rispetto dell’ambiente e della salute dei cittadini e dei lavoratori.
Ora che l’aggiudicazione dell’ILVA al colosso internazionale Mittal è cosa fatta, si rivendica, a ragione, l’instaurarsi di un rapporto proficuo tra AM Investco e enti locali, in particolare Taranto e imprese (indotto) per le ricadute sia in termini di ristoro per la città che per la ripresa di attività produttive collegate all’acciaieria. Il rischio di ricadere in formule e modelli relazionali del passato è tuttavia grande. Troppo.
Così l’agire della collettività, dal più grande al più piccolo grado di responsabilità, non è cosa da poco.
Forse la prima cosa da fare è invitare i Mittal e i loro alti dirigenti a visitare il Museo MarTa e il Castello Aragonese o la Città Vecchia per conoscere la storia di Taranto e il valore culturale che tali luoghi rappresentano. Portarli poi a conoscere la gente del quartiere Tamburi, per toccare con mano i tanti drammi, ma anche le tante aspettative che lì risiedono nella speranza di avere un luogo che rinasca sul piano sociale e urbanistico, scevro dagli effetti devastanti dell’inquinamento industriale.
Gli si faccia conoscere, inoltre, le tante realtà produttive innovative e di qualità (le produzioni agricole ed agroalimentari ad esempio), nonché i siti di interesse paesaggistico e storico-culturale che circondano la grande fabbrica, dalle gravine, al barocco, passando per le aree delle dune costiere, che hanno diritto a svilupparsi nelle migliori condizioni possibili.
Quindi gli si dovrebbe chiedere di essere assolutamente rispettosi del Piano Ambientale e, anzi, di impegnarsi a migliorare costantemente le tecnologie per abbattere gli inquinanti, fino all’agognata decarbonizzazione del ciclo produttivo, attraverso l’impegno di Enti Locali e Stato a crearne le condizioni attraverso una politica energetica che porti ad abbattere il prezzo del gas per favorire la riconversione produttiva.
Perché il rapporto con Mittal non potrà misurarsi solo sui numeri, ma dovrà svilupparsi una volta per tutte sul valore finora non riconosciuto a Taranto, alla sua storia, al suo patrimonio, ai suoi potenziali e soprattutto alla sua gente. Ecco perché, al netto delle immunità o dell’assenza di penali, Mittal sappia instaurare un clima di rispetto, cominciando dal Centro di ricerca che si è impegnata a far nascere in questa città e che potrà diventare perno attivo di questa azione, in stretto rapporto con le Istituzioni scientifiche del territorio.
Spetta poi agli enti locali pretendere dal Governo (più che da Mittal) quegli investimenti pubblici che permettano la riqualificazione urbana e del territorio, a partire dai fondi per le periferie, quelli per un corretto ciclo dei rifiuti, o quelli per creare opportune condizioni per lo sviluppo del turismo di qualità. Spetta alla classe imprenditrice sviluppare imprese capaci di vivere in relazione si con l’ILVA, ma capaci di esserne anche autonome in un contesto innovativo e non dipendente strettamente dal manifatturiero industriale.
Ma non si dimentichi quella che forse dovrebbe essere una priorità: come sarà utilizzato il miliardo e 200ml di euro a disposizione dei Commissari Straordinari per le bonifiche delle aree interne all’ILVA? Quali i tempi, il piano industriale e operativo? Quali le ricadute i termini ambientali? Nella foga di rincorrere un incontro con i dirigenti di AM Investco ci si dimentica di interrogare Governo e Commissari su un tema che per proporzioni di investimento e di ricadute sul territorio dovrebbe essere tenuto in debita considerazione. Uscire dalla monocultura dell’acciaio è possibile, ma si cominci dalle teste di ognuno di noi.
Paolo Peluso
Segretario Generale CGIL Taranto