Dopo sei anni di rinvii, cambi di rotta e incertezze la vertenza Ilva è giunta a uno sbocco. L’esito di queste ore va esaminato in maniera complessiva.
Il governo Conte si è limitato a condurre in porto l’operazione di vendita entro i limiti tracciati dal precedente esecutivo. Il Movimento 5 Stelle, impegnato in prima linea con il suo “capo politico” Luigi Di Maio, non è riuscito a imprimere una svolta agli aspetti sostanziali. Si è ceduto un asset “strategico” a una multinazionale privata, rinunciando a qualsiasi ipotesi di politica industriale. Una decisione gravida di conseguenze: il risanamento ambientale sarà gestito da un soggetto la cui priorità non è né la tutela della salute né la garanzia del lavoro, ma unicamente il profitto. La salute e il lavoro di migliaia di persone vengono così subordinati agli interessi di una singola impresa.
Tale esito evidenzia l’influenza che i grandi gruppi industriali privati esercitano sul governo. La Lega ne è espressione diretta, ma i 5 Stelle non sono capaci di contrastarli, e anzi si mostrano del tutto subalterni. Questa debolezza è il frutto dell’ambiguità di fondo del Movimento, della sua scelta di non schierarsi chiaramente dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori, della volontà di tenersi in equilibrio fra sfruttati e sfruttatori. Una posizione che inevitabilmente favorisce gli interessi più forti.
Questi limiti di fondo sono emersi chiaramente nel corso della trattativa. La bozza di accordo presentata il 5 settembre partiva da posizioni addirittura più arretrate rispetto alla stessa proposta Calenda. Si prospettava l’applicazione del Jobs Act a tutti i nuovi assunti da AM Investco e nessuna garanzia di reimpiego per chi sarebbe rimasto in Ilva in Amministrazione Straordinaria. Solo la fermezza dei sindacati ha permesso di strappare miglioramenti significativi.
Incognite pesanti restano invece sul piano ambientale, che non rientra nell’accordo del 6 settembre e di cui è esclusivamente responsabile il governo. Su tutto risalta la mancata adozione della Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario (Viias), chiesta dalla Fiom e dalle associazioni ambientaliste. Con questa procedura sarebbe stato possibile stimare preventivamente i danni sanitari delle emissioni, e orientare di conseguenza le scelte industriali. Si tratta di un cedimento grave agli interessi di Mittal che mette a rischio la salute dei lavoratori e dei cittadini.
In questa stessa direzione va la mancata abrogazione dell’immunità penale, che di fatto permetterà all’azienda di gestire il risanamento senza troppe pressioni. Infine, le misure annunciate dal governo non prospettano nessuna trasformazione del ciclo produttivo – unica possibilità per ridurre drasticamente l’impatto ambientale e sanitario della fabbrica.
La cessione di Ilva ad Arcelor Mittal pone un problema politico di grande portata. Si chiude una fase lunga sei anni e se ne apre un’altra che certo non sarà breve. Con Taranto Mittal consolida il suo primato in Europa e nel mondo, ed è chiaro che cercherà di utilizzare al massimo le potenzialità dello stabilimento per estrarre il massimo profitto. Ne potrebbero derivare conseguenze dentro e fuori la fabbrica, sulla tenuta dell’occupazione e sullo sfruttamento dei lavoratori, sull’inquinamento e sulle sue conseguenze sanitarie. Davanti a questo scenario è necessario mettere in campo un’iniziativa all’altezza della sfida: raccordare le lotte in fabbrica e in città contro il nuovo padrone. Non si può ripetere una nuova “era Riva”.
Ma allo stesso tempo occorre cogliere il nuovo livello della sfida. Ci troviamo davanti a una multinazionale: non possiamo pensare di combattere un gigante restando chiusi nel nostro piccolo villaggio. E’ indispensabile costruire reti con esperienze di lotta che riguardano lo stesso gruppo Mittal in altri paesi europei.
Rifondazione Comunista si impegnerà a fondo su questi due piani. L’unità degli sfruttati, a livello locale e a livello globale, è la sola via per migliorare concretamente le cose.
Partito della Rifondazione Comunista
Federazione di Taranto