«Sono un operaio anche io e, in quanto tale, se l’Ilva dovesse chiudere – cosa che non credo avverrà mai – andrei a casa anch’io. Ma ci andrei a testa alta». Sono le parole di Vincenzo De Marco, operaio Ilva, noto per aver denunciato in un suo libro intitolato “Il Mostro”, quelle che sono le condizioni lavorative all’interno e all’esterno dello stabilimento Ilva.
Vittima tempo fa (dopo la tragica morte dell’operaio Giacomo Campo) di gravi minacce di morte, denunciate alla direzione dell’azienda e alle forze dell’ordine, gli è stata in seguito anche distrutta l’auto con la quale si reca a lavoro. L’ultimo “avvertimento”, lo ha ricevuto questa mattina: una croce di nastro adesivo sul suo armadietto. «L’ennesimo scherzo di cattivo gusto – spiega De Marco – ho nuovamente denunciato l’accaduto alla direzione e al sindacato. E’ ovvio che il gesto sia mirato alla mia persona. L’armadietto è nominativo e c’è il mio numero di matricola. Credo sia dovuto a quanto ho fatto nell’ultima manifestazione».
Durante la recente manifestazione pro ambiente “Giustizia per Taranto”, Vincenzo De Marco ha chiesto scusa alla città per quello che avviene da sessant’anni a questa parte. «La colpa è anche di noi operai che ci lavoriamo. Io continuerò a fare quello che ho sempre fatto: denunciare le condizioni in cui lavoriamo e le conseguenze ambientali».
Le prime minacce risalgono al periodo immediatamente successivo alla morte del 24enne Giacomo Campo, vittima di un terribile incidente all’interno della fabbrica. Sull’armadietto di Vincenzo De Marco furono disegnate croci e teschi: «Sicuramente ciò che faccio infastidisce qualche mio collega – dice De Marco – infatti tra le varie scritte, spesso ho trovato la classica frase ‘vengo a mangiare a casa tua’. Ignorano che sono un operaio come loro e, se l’Ilva chiude, vado via anche io. Ma a testa alta».
Ennesima dimostrazione che buona parte di Taranto vive ancora assopita nella falsa credenza che l’acciaio costituisca il futuro. Ma non quello dei tarantini o, almeno, non in questo modo.