Scrivo questo post, su questo mio carissimo amico blog, per riflettere su un argomento molto importante. Il titolo parla chiaro, dice “Vi presento l’Alzheimer”, e poi pone una domanda: “Chi è il vero malato?”. Ovviamente, non si tratta di un articolo a carattere medico scientifico poiché non ne ho le competenze, ma un’analisi sociologica sul fenomeno è fattibile. Che cosa è l’Alzheimer? Se dovessi fornire io una spiegazione della patologia, direi che è quella maledetta malattia che colpisce una persona nella maggior parte dei casi anziana, privandola della propria dignità. Oltre il “malato”, l’Alzheimer colpisce tutte quelle persone che sono intorno a quest’ultimo. Dunque, ricapitolando, l’Alzheimer è quella maledetta malattia che un bel giorno decide che la tua vita, il tuo lavoro, i tuoi hobby e la tua serenità devono essere accantonati. Insieme a tutto questo, aggiungiamo anche l’immagine. E’ proprio su quest’ultimo concetto che voglio sviluppare il mio discorso. Prima però, voglio fare alcune premesse, in modo da orientare bene il lettore, e per rendere comprensibile quanto sto raccontando.
L’Alzheimer lo conosci solo quando ci hai a che fare. Non cancella solo i ricordi del malato. Cancella anche i tuoi. Cancella i tuoi giorni, cancella tutto. Però ti insegna anche qualcosa: ti insegna ad essere tollerante e paziente. E tolleranza e pazienza sembrano essere la vera cura per i famigliari di un malato di Alzheimer. Inizialmente, quando ancora non si è a conoscenza della presenza della malattia, si guarda il malato con aria sospetta. Si pensa che questo sia cattivo, dispettoso, fastidioso. Si litiga con il malato, e ci si esaspera nel dover ripetere sempre la stessa e identica cosa mille volte al giorno. Poi però, quando capisci che fare sempre le stesse domande, è l’unico modo che il malato ha per aggrapparsi ai ricordi, ti rendi conto che arrabbiarsi non serve a nulla, perché cinque minuti dopo, tu sarai ancora nervoso, il malato ti guarderà e ti chiederà “perché sei arrabbiato?” e magari si intristisce perché pensa che ce l’hai con lui. Come dicevo, questo maledetto Alzheimer, cancella i ricordi, ma non cancella i rimorsi. I rimorsi per tutte quelle volte che ti sei arrabbiato, e ti sei sentito preso in giro perché quella persona “negava” di aver commesso una determinata azione. Ma non negava, semplicemente non lo ricordava. Sapevo già cosa fosse l’Alzheimer: lo leggevo negli occhi di mia zia e delle mie cugine, che stanno perdendo giorno dopo giorno, quello che prima della malattia era un marito e un padre. Non che adesso non ricopra più quel ruolo, ma della persona è rimasto un corpo spento ed agonizzante in un letto, perché la malattia gli ha mangiato qualsiasi facoltà, qualsiasi speranza, qualsiasi pensiero. Lo conoscevo dunque, l’Alzheimer. Negli ultimi quindici giorni ho approfondito la mia conoscenza. E’ venuto a bussare alla mia porta e ha detto a me e alla mia famiglia di mettere da parte le nostre vite per prepararci al peggio. L’Alzheimer da oltre due settimane a questa parte, bussa ogni giorno alla mia porta. A qualsiasi ora, 10, 15, e anche 20 volte al giorno. Citofona e bussa. Bussa quasi a voler buttare a terra il portone. E ogni volta che rispondi, piange. Bussa a qualsiasi ora, fa la pipì dove capita, non ricorda di aver mangiato e non riesce più ad aprire la porta di casa. Questo Alzheimer che ogni giorno si presenta davanti la mia casa, ha il nome e il volto di mio nonno. Una persona mio nonno, che affetta da questa maledetta malattia, ha perso la cognizione di se stesso, del tempo, dello spazio. Tutto. Ha perso tutto. Non c’è nulla di lui che io e la mia famiglia possiamo salvare, perché si sa, la malattia è così. Ma forse solo una cosa posso salvarla, anzi devo salvarla: la sua dignità. La malattia ti fa perdere anche quella purtroppo, ad esempio, quando in preda all’incontinenza, fai la pipì ovunque capiti. E i rari momenti di lucidità che seguono (ora svaniti anche quelli), includono un’umiliazione tale, che un uomo di 86 anni, padre e nonno, non riesce a reggere. E allora subentra quello che viene chiamato il male dell’anima: la depressione. La depressione ti uccide dentro, e allora ti ritrovi una persona senza ricordi, senza mete cognitive, senza pensieri, costantemente in ansia, e in lotta con il male della sua anima. A ciò contribuisce anche il dover privare questa persona delle sue abitudini, come macchina e campagna ad esempio. Cosa che la mia famiglia ha fatto per il suo bene (e per quello degli altri), ma che lui ha percepito male. Privare una persona delle sue abitudini, soprattutto se praticate per un’intera vita, equivale ad ucciderne una parte. Adesso gli priveremo anche di uscire purtroppo, perché proprio stasera, ne ha combinata un’altra delle sue, dimenticata subito dopo. E allora un malato di Alzheimer non puoi rimproverarlo, perché non se ne spiegherebbe il motivo e percepirebbe il tutto come un maltrattamento. E adesso chiuderlo in casa con noi, nonostante la nostra costante presenza (la sua famiglia), lo prenderà come una punizione, e ne soffrirà. Si vedrà privato di tutto, della sua vita, e noi saremo i cattivi. Ma si sà, è la malattia, e il bene di un famigliare ha anche questo prezzo. Perché vi racconto questa storia? Arriviamo al dunque. Chi è il malato? Malato sembra quasi un’offesa, parliamo di una persona in difficoltà. Una persona in difficoltà, il buon senso vuole, anzi lo spirito di umanità vuole, che vada aiutata. Aiutata, ho detto bene. Non derisa e schernita per strada. O peggio, criticata. Dico questo perché, proprio oggi pomeriggio, mentre mio nonno era a casa mia per la cena, io ero fuori con mia madre per sbrigare alcune faccende e ci siamo imbattute in una conversazione tra alcune persone. Persone, a cui forse i castighi divini (che Dio mi perdoni) non sono bastati, e anziché aprirgli il cuore al prossimo, si preoccupavano di criticare atteggiamenti assunti da mio nonno: quali ad esempio il parlare a casaccio, oppure l’impulso frenetico, quasi ossessivo compulsivo di sfondarmi la porta di casa. Eh si, ne ridevano. E se fosse capitato a voi? Ad un vostro parente? Anzi, e se capiterà a voi? E’ facile dire “chiudetelo in un istituto”. E’ facile da dire, si, per chi problemi non se ne pone ad abbandonare un genitore. Chi invece lo scrupolo ce l’ha, viene mal visto, perché il padre o il nonno, si comporta in maniera strana per strada. Però, siamo bravi a parlare di accoglienza, a metterci in prima fila nelle gare di solidarietà o eventi religiosi. Si forse sono malata anche io, perché dico sempre la stessa cosa, ma non mi stancherò mai di dire, quanto certa gente sia degna di essere catalogata tra i Farisei. Schifare, evitare, deridere e schernire una persona malata, è abominevole. Chi fa più pena a questo punto? Il malato, o la gente che fa queste cose? Io resto senza parole. Però questo schifo lo voglio urlare, perché viviamo in un paese di 4000 abitanti, e la solidarietà e la comprensione dovrebbero essere le fondamenta di una comunità così piccola. Invece no, siamo tutti giudici di qualcuno. Siamo tutti superiori a qualcuno. Più in alto su di un gradino che in realtà non esiste. Ma quando si tratta di ergerci a moralisti, e additare chi “profana”, siamo sempre lì in prima linea. Riempiamo i cortei religiosi, riempiamo le chiese, consumiamo Rosari e libricini nel pregare; cantiamo anche senza voce, piangiamo sotto le croci, e veneriamo statue sacre ad ogni occasione, e poi vedi… siamo così vuoti, ciechi. Comprendo anche me stessa, perché prima che questa maledetta malattia venisse a bussare alla mia porta, mi arrabbiavo. Andavo in escandescenza, reputavo cattivi i comportamenti di mio nonno. Poi ho capito, che la persona cattiva forse ero io. Io faccio umilmente il mea culpa, ma ora è evidente, che “Nocenz” è una persona malata, che non va derisa. E che si addormenta su una panchina e gli cascano gli occhiali per terra, questi vanno raccolti e gli vanno restituiti, non va deriso, non va preso in giro. Perché tra 100 anni su quella panchina, ad addormentarsi, o lungo la strada a dire cose a casaccio, potrebbe esserci il padre o il nonno di qualcun altro. Visto che questo paese, strutturalmente non offre nulla ai nostri anziani, visto che ci sentiamo tutti autoctoni e legati alle radici, mettiamole in pratica tutte queste cose e rispettiamoli. Non vi racconto questo per avere la vostra solidarietà, non mi cambia la situazione. Voglio però che sia una testimonianza, e che ci porti a riflettere sul fatto, che siamo tutti sotto lo stesso cielo, e che la vita, è una ruota che gira.
Chiudo con una massima di Papa Giovanni XXIII: “Nulla di quello che accade all’uomo deve risultarci estraneo”.
Elena Ricci