Sognavo quel bambino da ormai diverse settimane. Avrà avuto sì e no cinque anni. Ci incontravamo sempre lì, sul Lungomare. Ero seduto, come al solito, su di una panchina ed eccolo avvicinarsi, con la sua palla, e chiamarmi per nome. Ma come faceva a saperlo? Ero incuriosito da ciò. Durante ogni mio sogno, quel candido e biondo bambino, con quei suoi occhi cielo, mi invitava a giocare con lui. Il tempo trascorso assieme aumentava ogni volta. Quando mi svegliavo un pensiero fisso mi attanagliava: volevo sapere quale fosse il suo nome e, puntualmente, durante ogni mio onirico viaggio non glielo domandavo. Avrò avuto 35 anni all’epoca. Poi d’un tratto sparì. Non lo sognavo più. Lo confesso: mi mancava. Ogni qualvolta andavo a dormire, speravo di incontrare quel piccolo cucciolo e domandargli diverse cose: chi fosse, cosa volesse da me e perché avesse così tanto bisogno di giocare con me. Io e mia moglie avevamo provato e riprovato ad avere un figlio, senza risultati. Così, quando la speranza sembrava ormai esser scomparsa, venimmo a scoprire piacevolmente che lei fosse in dolce attesa: aspettava due gemelli. Allora iniziai a capire. Almeno così credevo. Infatti pensavo che quel batuffolo occhi cielo fosse mio figlio o, comunque, uno dei due bambini che mia moglie portava in grembo. Avrei voluto sognarlo ancora. I mesi trascorrevano ed il pancione di Alessandra cresceva sempre più. Era tanto felice mia moglie. Purtroppo ci furono delle complicazioni: lei ad un certo punto avvertì dei lancinanti dolori addominali. Qualcosa non andava, era alla trentunesima settimana di gestazione. Quella sera ci trovavamo a festeggiare in un ristorante del borgo il nostro anniversario di matrimonio. Ci recammo immediatamente in ospedale. Nello sguardo della ginecologa avvertivo preoccupazione. Uno dei feti era sofferente. Alessandra doveva partorire d’urgenza. La prima a venire alla luce fu Sveva, il mio piccolo amore; successivamente fu la volta di Matteo. Il piccolo purtroppo non ce l’aveva fatta. Il suo cuoricino aveva smesso di battere poco prima del parto. Alessandra non sopportò un simile dolore e perse i sensi. Anch’io ero sopraffatto, lo riconosco, ma per amore di mia moglie e di mia figlia cercai di farmi forza. In un momento di solitudine scoppia in lacrime sino a che, stremato dalla sofferenza, non mi addormentai. Ed ecco la sorpresa: ritrovai quel dolce bambino, con la sua immancabile palla da calcetto. Questa volta ci trovavamo presso la Villa Peripato. “Papà, forza, gioca con me”.Quelle furono le parole del bambino: sì, mi chiamava papà. Era lui. Ne ero certo. Era Matteo. “Papà, non vuoi giocare con me a palla?” continuò il piccolo, desideroso di un mio cenno. Gli dissi che era un bellissimo piccino e iniziammo a giocare. Mi meravigliai del controllo che riuscii ad avere sulla parola: gli chiesi allora perché tutto questo. Perché quei sogni. Dovevo sapere. “Papà, conosco te e la mamma. Vi osservavo da lassù prima ancora che voi scopriste della gravidanza. Sapevo già tutto. Sapevo come sarebbero andate le cose. Lui non voleva che vi rimanesse un opaco ricordo di me, così mi ha chiesto di venire a trovarti in sogno. Non potevo dirti tutto subito. Non funziona così. Dovevi capire da solo, e per gradi”. Dunque una lacrima iniziò a scorrere sul mio volto. Era un sogno eppure percepivo il mio viso bagnato. “Non piangere. Va tutto bene. Io vivo lì e sto bene. Lui è con me.”, disse Matteo, cercando di rassicurarmi. “Chi?” domandai. “Chi è lì con te?” Lui rispose: “L’origine di tutto, papà.” “E per quale motivo non sei accorso in sogno anche a tua madre?”, chiesi rammaricato. “Perché lei non avrebbe retto al colpo. Lo hai visto anche tu.” Allora domandai: “ Ma come faremo? Come? Non faremo che chiederci come saresti stato, cosa avresti fatto, cosa saresti divenuto. Vivremo di domande prive di risposte.” “Vivrete per Sveva e per il mio ricordo.” Sorrideva Matteo stavolta. “Cosa dirò a tua madre?”, chiesi straziato. “Le dirai che il tempo farà apparire tutto meno doloroso. Ora devo andare papà. La palla serve anche agli altri bambini. Non hai idea di quanti, come me, incontrano i loro genitori ogni giorno, ma si sistema tutto. Ci vuole solo tempo, e poi qui siamo insieme, tutti noi. Papà, fatti forza”. La cosa che più mi meravigliava di quel piccoletto era la sua maturità. Per intenderci, esteriormente era un bambino di cinque anni, ma sembrava quasi che qualcuno parlasse per lui. La paura mi assaliva, così, tremolante, gli chiesi cosa avrei dovuto fare. Lui rispose di svegliarmi, ed improvvisamente aprii gli occhi. Sul viso giacevano vistose e prepotenti le tracce del pianto e, strofinandomi gli occhi, mi recai da mia moglie. Le raccontai tutto, dai sogni pregressi a quello che si era appena concluso. Come immaginavo scoppiò in lacrime. Sono trascorsi tanti anni ormai da quel giorno. A Sveva raccontammo del fratellino, ma per non recarle dolore decidemmo di non svelarle il nome, o meglio lo decise mia moglie, nonostante la mia palese obiezione, perché a suo dire, in tal modo, nostra figlia avrebbe sofferto meno. Ho deciso di raccontare questo mio “pezzo” di vita perché sono diventato nonno da poche ore: mia figlia ha dato alla luce uno splendido maschietto. Quando le abbiamo chiesto come lo avrebbe chiamato, ha risposto che il suo nome sarebbe stato Matteo, come il bambino che sin da quando era piccina vegliava su di lei, andandola a trovare in sogno.
Francesco Galeandro